Crisi dell’acciaio svizzero, il difficile cammino degli aiuti statali

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Un operaio nell’acciaieria della Steeltec AG di Emmenbrücke.


Keystone / Michael Buholzer

Il Governo federale, nonostante le sollecitazioni di alcuni ambienti politici, non intende intervenire a sostegno del settore, come avviene da decenni in Italia.

Pur non assumendo l’ampiezza del dibattito in corso da decenni in Italia sul futuro dell’industria siderurgica – in particolare riguardo alla più grande acciaieria d’Europa a Taranto – anche nella Confederazione si è iniziato a discutere di questo settore, ritenuto da molti strategico per il Paese.

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La cronaca di queste settimane riporta della grave crisi in cui versano le due acciaierie di Gerlafingen ed Emmenbrücke, in merito alla quale si osservano timide e inedite iniziative nel mondo della politica per garantire la loro sopravvivenza.

Governo italiano in soccorso dell’acciaio

In Italia il Governo si è mosso proprio in questi mesi per scongiurare la chiusura della più grande acciaieria d’Europa, l’ex Ilva di Taranto (oggi Acciaierie d’Italia) e per rimettere in moto il polo siderurgico di Piombino, dopo 10 mesi di cassa integrazione. “Siamo sulla strada della rinascita della siderurgia nel nostro Paese”, ha affermato in questi giorni il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.

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Dopo inchieste e sequestri giudiziari – per le sospette morti da inquinamento, ripetuti commissariamenti e vari passaggi di proprietà – lo stabilimento pugliese, fondato negli anni Sessanta del secolo scorso dall’ente statale dell’IRI, è stato di nuovo oggetto di un’iniziativa della politica: il Governo è intervenuto per tenere acceso l’ultimo altoforno ancora in funzione – a pochi giorni dalla chiusura paventata dal colosso indiano-lussemburghese ArcelorMittal che detiene il 68% del capitale della società (la quota restante è dello Stato) – e ne ha riattivato un altro.

In attesa che l’impianto venga assegnato nei prossimi mesi a uno dei gruppi industriali che hanno manifestato interesse per il rilancio della produzione d’acciaio nel polo tarantino, a seguito del bando indetto dalle autorità italiane (le offerte vincolanti dovranno essere presentate entro fine mese).

A Piombino invece, anch’esso colpito da una grave crisi ultradecennale, si stanno rimettendo in funzione gli impianti dopo che i privati Metinvest e Jindal hanno concordato un piano di investimenti, sotto la regia di Roma.

Due casi emblematici di una lunga vicenda che in varie fasi ha visto come assoluto protagonista l’ente pubblico che storicamente reputa strategico il settore dell’acciaio, in primo luogo per le ricadute che ha nell’ambito della difesa nazionale.

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La crisi in Svizzera

Una storia del tutto diversa la si riscontra in Svizzera, dove le sensibilità sono assai differenti: la siderurgia è infatti sempre rimasta appannaggio esclusivo dei privati e le autorità se ne sono sostanzialmente disinteressate. Ma la crisi che ha colpito questo ramo in Svizzera, a causa soprattutto dell’incremento dei costi energetici e delle nuove stringenti norme sulla decarbonizzazione – che richiedono ingenti investimenti e costi – stanno cambiando inossidati paradigmi e più di una voce si è levata per sollecitare un intervento dello Stato.

Devono però fare i conti con una lunga tradizione rigorosamente liberista, tenacemente contraria all’interventismo dello Stato, favorita anche dall’assetto istituzionale federalista che ha sempre prevenuto possibili invasioni di campo da parte della politica centrale.

Il panorama industriale è però in piena evoluzione, mettendo a rischi la sopravvivenza del settore. In primavera la Stahl Gerlafingen, insediata nel Canton Soletta, ha annunciato il licenziamento di 68 persone e la chiusura di una linea di produzione, misura che non è risultata sufficiente, dal momento che nei mesi successivi sono stati lasciati a casa altri 120 dipendenti.

Negli scorsi giorni la multinazionale Swiss Steel di Lucerna ha comunicato un piano di ristrutturazione che prevede la soppressione di 800 impieghi in Europa, 130 dei quali nella Confederazione.

+ L’industria siderurgica svizzera attraversa una crisi profonda

A pesare sulla decisione, oltre ai costi energetici e alle nuove norme sulla decarbonizzazione, vengono menzionati fattori endogeni, quali la forza del franco e le sovvenzioni dei Paesi UE (in particolare in Francia e Italia), che, a detta della dirigenza della società, dire distorcono il mercato, creando una concorrenza sleale per i produttori elvetici. A queste cause si è poi aggiunta la crisi della Germania, in particolare nell’automotive, che si è ripercossa sulla domanda.

Una crisi ultradecennale

La crisi della siderurgia in Svizzera, ci spiega Luigi Lorenzetti, responsabile del Laboratorio di Storia delle Alpi all’Università della Svizzera Italiana (USI), in realtà parte da lontano. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il ramo della produzione di ferro e acciaio, che era sorto nel XIX secolo per iniziativa dei due gruppi Von Roll e Von Moos, conobbe una nuova espansione, dovuta soprattutto alla produzione di acciaio per il cemento armato. Nacquero nuovi impianti quali la Monteforno a Bodio (Ticino) nel 1946 e la Ferrowohlen a Wohlen (Argovia) nel 1955.

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A metà degli anni 1970-80, però, – continua lo storico ticinese – questo ramo entrò in una crisi da cui non è più riuscito a risollevarsi completamente: la Ferrowohlen e la Monteforno chiusero i battenti nel 1994 e successivamente, dietro pressione delle banche, nel 1996 la Von Moos e la Von Roll riunirono la produzione di acciaio nella Swiss Steel (che nel 2006 è stata rilevata dalla tedesca Schmolz+Bickenbach AG).

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Ingresso dell'ex acciaieria Monteforno a Bodio (foto del 1996).

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L’uscita del libro di Sara Rossi Guidicelli “Quaderno della Monteforno. Un racconto di fabbrica” ci dà l’occasione di ripercorrere la storia di quella che per anni è stata la più importante industria ticinese.



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Sono seguiti vari e complessi passaggi di proprietà e riassetti societari fino ai nostri giorni, nei quali si stanno manifestando nuove difficoltà legate soprattutto alla congiuntura e alla concorrenza estera.

Governo poco incline ad aiutare il settore

Da parte del Governo, per bocca del ministro dell’economia Guy Parmelin, si è subito escluso qualsiasi aiuto diretto da parte della Confederazione, dal momento che il ramo siderurgico non viene considerato di rilevanza sistemica da Berna.

Una valutazione che ha suscitato critiche in Parlamento, dove sono state avanzate tre mozioni (Christian ImarkCollegamento esterno, Franziska RothCollegamento esterno e Damian MüllerCollegamento esterno), accettate a metà novembre dalla Commissione economia della Camera alta (Consiglio degli Stati), che sollecitano il Consiglio federale ad adottare misure urgenti a sostegno dell’industria siderurgica nazionale. Il futuro delle acciaierie di Gerlafingen e Emmenbrücke, sostiene l’organo parlamentare, “è seriamente minacciato” e con esso “la sicurezza dell’approvvigionamento del Paese e la sostenibilità”.

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Anche la Commissione energia dell’altra Camera (Consiglio Nazionale) si era detta preoccupata un mese fa per la difficile situazione attraversata dal settore dell’acciaio e dell’alluminio, ritenuti di importanza strategica e fondamentali nell’economia circolare grazie alle loro capacità di riciclaggio.

Per l’economia l’acciaio non è strategico

Opinioni, a dire il vero, non condivise dall’organizzazione mantello dell’industria metalmeccanica ed elettronica Swissmem, il cui direttore Stefan Brupbacher ha affermato negli scorsi giorni che le sovvenzioni pubbliche alla siderurgia, comparto considerato dall’associazione economica irrilevante dal profilo sistemico, sono costose e sono inefficaci a lungo termine.

Sulla stessa lunghezza d’onda Lukas Schmid, del “think tank” liberale AvenirSuisse, secondo il quale “sovvenzionare singole aziende dell’acciaio e dell’alluminio è fondamentalmente ingiusto” poiché tutte le altre imprese e le famiglie devono pagare tariffe elettriche più elevate.

Inoltre, continua Lukas Schmid, questi aiuti “sono inefficienti e inefficaci, poiché non sono in grado di risolvere i problemi del settore siderurgico”, e le imprese, in molti casi, rischiano di dipendere dai sussidi a lungo termine.

Anche l’economista di Avenir Suisse ritiene che il settore non abbia una rilevanza sistemica, data “la sovraccapacità a livello mondiale dell’industria siderurgica”: anche se chiude uno stabilimento in Svizzera è sempre possibile far capo alle “numerose acciaierie che esistono nel raggio di 150 km dal confine del Paese”.

Lukas Schmid rileva che le cosiddette aziende energivore in Svizzera hanno uno svantaggio rispetto ai loro concorrenti in Germania, Austria e Italia a causa degli alti costi dell’elettricitàCollegamento esterno in questo settore, ma aggiunge che questo dovrebbe diminuire un po’ nel prossimo futuro.

Ciò è dovuto soprattutto all’imminente soppressione degli aiuti governativi straordinari in questi Paesi, a condizione però che non ci sia una nuova impennata dei costi della rete svizzera. “È a questo livello che la politica è chiamata ad agire”, sostiene Lukas Schmid, vale a dire, garantendo le condizioni quadro ottimali per l’economia.

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La Confederazione ha una storia diversa

Molti analisti ed analiste escludono comunque che nella Confederazione possa verificarsi uno scenario analogo a quello venutosi a creare a Taranto, nel quale la partecipazione dello Stato a loro parere non ha migliorato la situazione finanziaria dell’acciaieria, la cui crisi dura da molti anni e la cassa integrazione (orario ridotto) viene prorogato continuamente.

Ulteriori operazioni promosse dal Governo italiano, secondo una corrente di pensiero vicina agli ambienti liberisti, non potrebbero impedire – semmai potrebbero solo ritardarli – i profondi mutamenti strutturali che stanno avvenendo a livello mondiale nella siderurgia.

In Svizzera, precisa in proposito Lukas Schmid (Avenir Suisse), “c’è una tradizionale avversione” all’intervento pubblico: “Da mesi infatti il Governo federale si oppone giustamente agli aiuti statali alle imprese private” in difficoltà.

Sull’altro fronte non si vuole invece rinunciare a operazioni orchestrate dalle autorità per far fronte a situazioni eccezionali. Lo testimonia il documento adottato in ottobre dal congresso del Partito socialista in cui viene proposta la statalizzazione dell’industria farmaceutica basilese Sandoz, per sopperire alla carenza di medicinali che si è acuita negli ultimi anni. Sull’esito finale di questa “audace” richiesta però ci sono pochi margini di incertezza.



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