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di Lorenzo Merlo
Se non ci svegliamo, se non escogitiamo qualcosa che interrompa la discesa verso la completa risibilità del potere popolare, siamo destinati ad una condizione di caleidoscopiche precarietà.
Questo articolo, dedicato alla situazione dei lavoratori impiegati per la costruzione del nuovo stadio di calcio di Riyadh, in vista dei mondiali del 2034, apparso su ilfattoquotidiano.it, illumina sulla deriva delle società capitaliste. Ma ・una luce sconsolatamente proiettata sul giorno, nel senso che la condizione in cui versano i lavoratori di cui si parla nel pezzo, non ・una novità anzi, gode e da molto di lunga vita.
Lo sfruttamento dei lavoratori – come diremmo noi civili e paladini dei fu diritti sociali, ora abbandonati per quelli individuali – che avviene in Arabia Saudita, e che è avvenuto in Qatar e in tanti altri Paesi, riferito nell’articolo de il Fatto, non ha di che scomporre la nostra società civile e, tantomeno, la relativa classe politica che, infatti, ha voluto e sostiene, ciò che avviene tra le dune e sopra il petrolio.
Anche le rispettive Federazioni Nazionali di calcio, che potrebbero e dovrebbero disertare la rassegna del campionato mondiale, e la Federazione Internazionale (Fifa) che dovrebbe e potrebbe imporre norme nei confronti dei lavoratori, nonché sanzioni amministrative e squalifiche tecniche per chi non le rispetta, certamente non faranno niente in nome degli ultimi. E così anche la Federazione Europea (Uefa), che dovrebbe esprimere il proprio dissenso.
In una cultura dove l’interesse economico ha piegato il resto dei pensieri, delle forze, delle passioni, dei credo, semplicemente non può accadere: gli affari sono affari. Formula espiativa per qualunque peccato comportino. Una specie di ragion di stato in seno ai bottegai del commercio e della politica, agli usurai delle banche e agli occulti poteri.
Anche se tutto ciò è alla luce del giorno da tempo immemore, l’articolo resta illuminante, almeno per coloro che sono contenti di poter fare la settimana bianca, di comprare la bmw, di ritirarsi in campagna nel fine settimana. Cioè, nei confronti di quel ceto un tempo detto borghese e qualunquista, ora anche individualista, edonista, opulente, consumista, materialista, divanista e, anche se qui non c’entra, scientista.
Un popolo che guarda la tv credendo di informarsi, parla a frasi fatte e luoghi comuni per via di quanto imparato da esperti e giornalisti, ama la satira che, a sua insaputa gli fa digerire le menzogne della comunicazione e del degrado a tutto tondo. Un popolo che ride soddisfatto e applaude, credendo basti per far sentire il suo dissenso, per sentirsi dalla parte della rivoluzione, ma che, ignaro di mostrare la sua nulla consapevolezza puntellata di buon senso – il massimo del suo orizzonte – seguita a votare e a raccontare agli amici e ai figli che, se Putin vince arriva a Lisbona.
La speranza è che questa fascia enorme, maggioritaria e latrice della cultura progressista trasversale, diagonale, bisettrice, perimetrale, circolare e sferica della scheda elettorale, possa essere toccata dal faro dell’articolo. Più esattamente, possa riconoscere che una politica senza sovranità popolare, venduta all’economia, non possa che proseguire il suo corso verso il basso, cioè verso quel punto creduto lontano, ma al quale siamo tutti esposti in forma varia, illuminato dall’articolo.
Che possa scuotere, oltre che le mani, anche il proprio potere, risvegliarlo dall’incantesimo, disseppellirlo dal tumulo di futilità – comprate risparmiando, naturalmente – con le quali aveva creduto di poterlo esercitare.
Un’economia finanziaria slegata dal lavoro e un capitalismo troppo costoso rispetto a quello orientale non possono che essere ingredienti di ricette dal costo al ribasso, da molto tempo garantito da una politica d’immigrazione travestita d’umanitarismo, ma voluta e promossa con strategia, per questioni squisitamente economiche ed egemoniche.
Di questo la classe media dovrebbe prendere coscienza e, finalmente, sentire che dal piano di sopra non cadono più le briciole che erano sufficienti a tenerla per il naso, nonché di accorgersi di essere appoggiata ed eretta su un terreno umido e senza più vespaio, senza più separazioni impermeabili rispetto alla classe che le sta sotto, composta da disgraziati, immigrati, reietti, lavoratori, disoccupati, pensionati, nullatenenti. Classe dei poveri che si sta infoltendo dal tempo della globalizzazione e della delocalizzazione, penultimi e pressoché congiunti espedienti per dare ossigeno al capitalismo occidentale. Una classe che, suo malgrado non può per cultura che esser anch’essa avida, in questo caso legittimamente di dignità e decoro minimo e sopravvivenza fisica. Che perciò non potrà fare sconti allo strato che le sta sopra. Gli affari sono affari, no? La competizione lo vuole. Il profitto lo impone. E una guerra tra poveri è sempre un fumogeno, dentro il quale, mentre nessuno vede, si ratificano leggi come quelle di Riyadh e ben oltre.
C’è da chiedersi quanto la luce gettata dall’articolo citato, e di mille altri già esistenti, possa essere vista dai ciechi o udita dai sordi, prima che l’espediente della rana bollita non ci faccia sentire, con troppo ritardo, cosa significhi esistere e lavorare nella multiforme precarietà, in questo caso, in nome del gioco più bello del mondo.
Lorenzo Merlo
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