La Corea dimostra che una politica con i dati senza regole, come vuole Musk, produce mostri

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In Corea va in scena il primo copione pensato da Elon Musk, che vuole sostituire le regole con i dati, come ha annunciato insediandosi al vertice del nuovo ufficio per la semplificazione burocratica che gli ha affidato Donald Trump.

In effetti la crisi sud coreana sembra un manuale di analisi di una politica moderna senza conflitto sociale ma con un overload di risse per strappare privilegi. La crisi di epilessia istituzionale del presidente Yoon Suk-yeol, che si è accartocciata nell’isolamento politico più totale, ci indica l’altra faccia del trumpismo senza popolo. Il presidente coreano, eletto per altro con una manciata di voti rispetto al suo contendente del partito democratico, sembra in preda a un delirio di potere, senza ragioni apparenti, appunto una crisi di epilessia politica.

La Corea del Sud è oggi, secondi tutti gli indicatori più aggiornati, uno dei paesi in grande e stabile sviluppo. Record di produzione industriale, trainata da un settore automobilistico in grande salute, nel deserto globale, con primati in tutti i campi dell’innovazione tecnologica, che ha riorganizzato la società civile in una comunità ad alto tasso di automatizzazione. Al tempo stesso, accanto a queste realtà si è sviluppata una attraente e creativa area di produzione culturale, sia rivolta alle generazioni più moderne, con la musica, il K-pop, sia a quelle più mature, come dimostra il nobel alla letteratura attribuito proprio quest’anno alla scrittrice Han Kang. Ma anche in settori apparentemente più frivoli, come moda e cucina, che indicano la maturazione di un gusto agiato per la vita, i sudcoreani sono oggi testimonmial di stili e modelli di relazioni sociali.

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Siamo dinanzi a un profilo che rovescia ogni paradigma delle analisi sul populismo sovranista e rissoso che ha portato alla vittoria negli Usa Donald Trump. Lì si parlava di tre fattori fondamentali: la caduta del benessere del ceto medio; la minaccia al predominio etnico delle élite bianche; il disorientamente per la disintermediazione nei distemi di comunicazione, che ha esautorato ogni ruolo delle élite professionali.

In Corea nessuna di queste condizioni agisce. Eppure siamo a una ripresa di asfissia politica. Non dimentichiamo che il paese era tornato alla democrazia relativamente da poco tempo, circa 30 anni, dopo un lungo regime di dittatura militare sorretto solo dalla paera dell’irrequieto e imprevedibile vicino nord coreano, che da qualche tempo brandisce anche l’arma nucleare.

Ma in questo lasso di tempo il paese sembrava aver usato la propria crescita economica per maturare un modello di democrazia dialettica e dinamica. In realtà proprio il benessere, combinato con un alto tasso di inclusione digitale, che porta ogni coreano a essere componente di comunità on line tracciabili e profilabili all’estremo, ha acuito la contrapposizione fra popolo e democrazia di cui parlava il politologo, docente ad Harvard, nel suo saggio PopoloVS Democrazia (feltrinelli) di qualche anno fa. Un popolo che senza partito produce solo peronismo senza rappresentanza. Tanto più se questo popolo è bersaglio granulare in ogni suo componente.

La maturità digitale del paese, come si osserva anche a Singapore, si basa sullo scambio fra efficienza e tracciabilità. Ogni cittadino cede una quota della sua sovranità intima per ottenere l’accesso a un sistema di welfare efficace. È un meccanismo tipico di ogni stato evoluto, dove la sovranità delle istituzioni è il risultato della cessione consapevole di un cumulo di infinite sovranità singole. Ma quando questa cessione avviene in maniera inconsapevole, per effetto dell’azione di algoritmi che, come ci descrive Paolo Zellini nel suo saggio La Dittatura del calcolo (Adelphi editore), “sono intimamente autoritari”, allora la curva comportamentale muta radicalmente, e si innestano i processi di polarizzazione plebiscitaria.

Se poi, questo è il caso che abbiamo sotto gli occhi in Corea, questa tracciabilità di ogni singolo cittadino diventa, sulla scorta di quanto stiamo vedendo in atto nei due conflitti bellici, in Ucraina e in Medio Oriente, vulnerabilità nei confronti di manomissioni progressive del senso comune non più di una intera comunità, come pure accadeva con la propaganda atlantica, ma come interferenza neurale in ogni singola intimità emotiva, come sta avvenendo con i sistema di intelligenza artifriciale personalizzsati, allora il quadro cambia.

La campagna elettorale diventa una guerra di civiltà, sia dove si contende la residuale ricchezza da spartire che lascia la globalizzazione, come appunto fra gli stati colpiti dalla de industrializzazione degli Usa, o le regioni francesi e Italiane, o nelle aree di un benessere in cui il futuro diventa, proprio perché il presente è sazio, un pericolo e un’angoscia per un possibile declino.

Il buco nero che ormai si sta evidenziando a tutte le latitudini del mondo, riguarda proprio quello spazio di rappresentanza e mediazione politica che deve separare e congiungere, allo stesso tempo, la cittadinanza dall’azione della rete.

Stiamo parlando della forma della politica, ancora più seccamente, di come si fa partito al tempo dell’automatizzazione dei comportamenti.

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La Corea del sud è in prima linea nella sua atavica confrontazione con il pazzo di PyongYang, che furbescamente si sta accreditando come alleato strategico della destra panslavista putiniana, rientrando nel grande gioco diplomatico globale. Ma è anche in prima linea oggi come possibile alternativa al monopolio di Taiwan nella produzione di semiconduttori. Già oggi da Seul arriva il 20% dei microchip strategici del mondo, ma nei prossimi 15 anni si dovrebbe superare il 50% grazie a un mastodontico investimento di circa 230 miliardi di dollari pianificato dal gigante Samsung nella città di Yongin che potrebbe sostituire la regione di Taipei, la capitale di Taiwan, come capitale dei sofisticati infinitesimali motori dell’intelligenza artificiale.

Due primati che rendono il paese essenziale per ogni equilibrio. Ma lo espongono a bersaglio di ogni strategia di interferenza. Quello che vediamo in corso è uno degli episodi della guerra ibrida che ormai si sta alternando alla guerra combattuta come forma permanente di competizione socio tecnologica.

Il benessere non attutisce i contrasti nella società tecnologica, ma spinge i ricchi a sottrarre ancora di più ai poveri, e questi ultimi a rivalersi su quelli più poveri. Ma soprattutto appiattisce, aliena avremmo detto in un’altra stagione, ogni singolo cittadino, nell’interpretazione di un ruolo civile gia programmato, o meglio, accompagnato da un sistema digitale che non viene mediato.

In questa dinamica la creatività artistica e comunicativa, che pure in Corea abbiamo visto non manca, non è palestra di creatività, ma di distrazione di massa, di esercitazione di una propria abilità, per contrattare ruoli e funzioni meno massificati.

Come sostiene il generale cinese Qiao Liang nel suo testo L’arco dell’impero (LeG editore) “dobbiamo ammettere con riluttanza che è internet che oggi fa la storia”. Quella riluttanza è l’indicatore di uno spazio politico che rimane aperto e che dovrebbe portarci a chiedere: chi è che fa internet? e perché?



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