La nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen si è appena insediata e ha già una lista piena di questioni da affrontare. Ma una su tutti domina l’agenda: l’automotive. Nel pieno crisi del settore, la presidente appena rieletta per il secondo mandato dovrà muoversi con attenzione tra gli equilibri e le sensibilità della sua maggioranza sul dossier più caldo perché intreccia gli aspetti ambientali e climatici con la tenuta industriale di un comparto sul piede di guerra. Da lunedì i lavoratori del colosso tedesco Volkswagen sono entrati in uno stato di agitazione permanente, dopo un primo giorno di sciopero che ha colpito nel segno, con oltre il 90% di adesioni in nove stabilimenti in Germania. A Bruxelles, il sito dell’Audi a fine febbraio chiuderà i battenti, ma i segnali che arrivano dal mondo dell’automotive di tutta Europa da mesi sono da allarme rosso: servono aiuti statali, costi energetici e delle materie prime più bassi, un forte rilancio della domanda e degli ordini, un contesto regolatorio più certo e prevedibile. La competitività dell’industria dell’auto sta colando a picco, di fronte all’avanzata dei colossi cinesi nella mobilità elettrica che qui fatica a decollare, e presto anche di fronte ai probabili dazi americani di Donald Trump. E questo è un problema di dimensioni bibliche per la manifattura europea, tra auto e indotto: 13 milioni i lavoratori occupati nell’industria direttamente e indirettamente, pari al 7% di tutti i posti di lavoro dell’Ue, un gettito fiscale agli Stati membri che ospitano stabilimenti di circa 375 miliardi di euro, un surplus di circa 80 miliardi, un fatturato pari all’8% del Pil e un comparto che è al primo posto come contributore privato nella R&S.
Cina da un lato, Usa dall’altro, ma il danno maggiore da affrontare – a detta dei produttori europei – è quello che arriva direttamente da Bruxelles. La madre di tutte le questioni è facilmente riassumibile: l’Unione Europea è stata ambiziosa e severa nel definire i suoi target green in materia di riduzioni di emissioni, ma a questi non ha accompagnato una adeguata strategia industriale che rendesse la transizione sostenibile economicamente per i produttori e per i consumatori. Oggi le crisi dell’industria dell’auto, il mancato decollo della mobilità elettrica, le difficoltà delle batterie made in Eu – basti vedere il recente fallimento del grande produttore europeo Northvolt in Usa – sono l’effetto largamente annunciato e previsto di una totale assenza di una pianificazione su doppio binario, green e industria.
Di fronte al nuovo mandato che si apre, la Commissione Europea sembra però destinata a rimettere tutto in discussione: “Riunirò intorno a un tavolo tutte le parti interessate” per “ascoltarci a vicenda” e “progettare insieme delle soluzioni mentre questo settore attraversa una transizione profonda e dirompente”, ha detto von der Leyen davanti agli eurodeputati, comunicando che il dossier auto sarà sotto la sua diretta supervisione, sintomo dell’urgenza e della delicatezza della questione.
La normativa europea prevede limiti stringenti nel corso del tempo, da qui al 2035 quando scatterà il divieto di vendita per auto a combustione. Ma la prima grande grana rischia di porsi già l’anno che sta per arrivare: secondo quanto previsto dal regolamento Ue sulle emissioni di CO2 dei nuovi veicoli, nel 2025 l’emissione media delle auto immatricolate non dovrà essere superiore ai 94 grammi per chilometro. Nel 2023 la media era di 106 grammi ma di questo passo, con il rallentamento delle vendite di auto elettriche a causa degli alti costi e della debole domanda, l’obiettivo europeo rischia di essere clamorosamente mancato. Come ha detto qualche tempo fa il Ceo di Renault Luca de Meo, i produttori saranno costretti a tagliare la produzione, per non incorrere in multe che potrebbero raggiungere la cifra monstre di 15 miliardi.
Sarà un tema centrale nel Dialogo Strategico sul settore automobilistico europeo che von der Leyen si appresta ad aprire. Il governo italiano ha già presentato a Bruxelles un non paper per chiedere di anticipare le clausole di revisione, già previste per la fine del 2026 per i veicoli leggeri e per veicoli pesanti al 2027, all’inizio del prossimo anno “perché in questa incertezza di quello che decideremo tra due anni nessuno più investe” ma nel frattempo “si rinuncia alla via dell’elettrico, rinunciando a realizzare Gigafactory, e nel contempo si chiudono gli stabilimenti per non pagare le penali il prossimo anno”, ha avvertito al Consiglio Competitività il ministro delle Imprese Adolfo Urso. Attorno al documento il sostegno diretto e indiretto di Repubblica Ceca, Austria, Slovacchia, Bulgaria, Polonia, Malta e Romania. Intanto in Italia l’esecutivo Meloni starebbe valutando un intervento a sostegno delle aziende dell’automotive da inserire nella manovra. Quello al quale si starebbe lavorando – viene spiegato – sarebbe un sostegno alle aziende e non incentivi all’acquisto di auto. In ogni caso si tratterebbe di misure circoscritte, considerate le poche risorse a disposizione. Già qualche settimana fa Urso, aveva assicurato che in manovra sarebbero arrivati nuovi fondi per la filiera dell’automotive.
Anche nell’Europarlamento qualcosa inizia a muoversi. Chi dà le carte nella maggioranza Ursula, i Popolari, ha lavorato a un position paper in cui si legge che “il divieto imminente del 2035 sui motori a combustione interna (Ice) dovrebbe essere annullato per riflettere la neutralità tecnologica, ovvero consentire un mix di tecnologie. Mentre i veicoli elettrici (EV) svolgeranno un ruolo importante nella transizione verso un futuro climaticamente neutro, anche altre tecnologie possono aiutare a raggiungere i nostri obiettivi climatici”.
Allo stesso modo la Commissione europea dovrebbe presentare “urgentemente una revisione del regolamento 2019/631 che reintroduca l’approccio tecnologicamente neutro e riconosca il ruolo di tutte le tecnologie nel raggiungimento delle riduzioni di Co2”. La revisione dovrebbe riconoscere il ruolo dei “carburanti alternativi, tra cui e-fuel, biocarburanti, carburanti rinnovabili o sintetici, fornendo esenzioni esplicite, accompagnate da altre misure come l’introduzione di un fattore di correzione del carbonio”.
Per il presidente del Partito popolare europeo, Manfred Weber, il Green Deal deve essere attuato “con pragmatismo, non con l’approccio ideologico della sinistra. Il motore a combustione deve avere un futuro. Chiediamo un approccio tecnologicamente neutrale per raggiungere le ambizioni ecologiche per il futuro”.
La compagine che sostiene von der Leyen dovrà scendere a patti con le varie forze che la compongono ed è destinata a mutare di volta in volta su questioni specifiche, visto il voto che ha ufficializzato l’inizio del nuovo corso consegnando il braccio esecutivo di Bruxelles alla maggioranza più debole e frammentata di sempre. La votazione sul collegio dei commissari ha visto il gruppo iniziale di Ppe, Socialisti, liberali e Verdi sfaldarsi al suo interno. Defezioni e uscite sono state registrate un po’ ovunque, a causa di aperture ai Conservatori e alle destre che hanno fatto storcere il naso ai partiti che inizialmente avevano concordato di sostenere von der Leyen. In questo contesto, con sensibilità marcatamente divergenti sui temi delle emissioni, dello sviluppo sostenibile e dell’industria, la nuova Commissione si affaccia sul nuovo quinquennio con tante incognite e poche certezze. Con la Germania senza una guida politica stabile fino a fine febbraio e la Francia che rischia di entrare nella peggiore crisi di governo della Quinta Repubblica, di tempo tuttavia a Bruxelles ne resta ben poco.
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