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Fida ha esaminato i prodotti della categoria venduti in Italia per capire come integrino i criteri etici. Screening normativo e negativo i più diffusi. Ma l’80% si ferma all’approccio bidimensionale. E dalle regole più garanzie che ostacoli
Negli ultimi anni la sostenibilità è diventata un elemento cardine nella gestione del risparmio, spinta non solo dalla maggior consapevolezza degli investitori ma anche e soprattutto dalle nuove imposizioni normative. Regolamenti come la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), la Tassonomia UE e gli aggiornamenti alla MiFID II richiedono infatti ai consulenti finanziari di indagare e tenere conto delle preferenze ESG degli investitori mentre i gestori sono chiamati a classificare i propri prodotti e fornire trasparenza sulle modalità di integrazione dei fattori etici. Ma a livello pratico con quali e quante strategie viene implementato dalle case questo sforzo? La redazione di FocusRisparmio ha passato in rassegna i prodotti della categoria per cercare di rispondere e individuare trend emergenti.
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L’universo di osservazione
A circoscrivere l’universo di osservazione è stata FIDA (Finanza Dati Analisi), società specializzata nello sviluppo di software per servizi finanziari ma anche nella distribuzione e nell’analisi dei dati relativi al risparmio gestito, che ha costruito un Osservatorio dedicato al tema raccogliendo e organizzando i dati ESG dei fondi di investimento distribuiti in Italia. Il punto di riferimento per il lavoro svolto dall’azienda in questa sede consiste nelle sette strategie individuate dall’European Sustainable Investment Forum (Eurosif), organizzazione che promuove l’integrazione della sostenibilità nell’industria finanziaria europea e le cui categorizzazioni sono utilizzate anche da istituzioni come il Global Sustainable Investment Alliance per monitorare e quantificare l’espansione della finanza etica a livello globale. Si tratta nello specifico di esclusioni, selezione positiva o best in class, screening basato su norme, azionariato attivo, investimenti tematici, impact investing e integrazione.
Gestione attiva più sostenibile
Fonte: Osservatorio Fida sulla sostenibilità nel risparmio gestito
Il primo dato evidenziato dall’analisi di Fida è che gli strumenti passivi presentano un’adozione dei principi di sostenibilità significativamente inferiore rispetto ai loro corrispettivi attivi. Lo screening negativo è ad esempio adottato dal 44% dei fondi contro appena il 7,85% degli ETF, mentre quello normativo raggiunge il 30,31% nel primo gruppo e solo il 6,41% nel secondo. Anche pratiche più complesse e articolate mostrano un divario simile, con l’integrazione che scende dal 4,85% all’1,6% nel passaggio tra una categoria e l’altra. In sostanza, escludendo il sostanziale allineamento sul fronte della strategia best in class (4,18% contro 4,47%), appare chiaro come la gestione attiva riesca a esprimere un maggior livello di personalizzazione e coinvolgimento. “I fondi sono lo strumento più adatto a chi cerca un’applicazione articolata e diversificata dei criteri ESG”, ha osservato la financial analyst di Fida Monica Zerbinati, secondo la quale l’incapacità dei passivi di rispondere a esigenze d’investimento più sofisticate può essere attribuita al vincolo di dover replicare indici tradizionali.
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Poche strategie in contemporanea
Fonte: Osservatorio Fida sulla sostenibilità nel risparmio gestito
Quanto invece al numero di strategie, quasi l’80% dei prodotti dimostra di evitare l’approccio multifattoriale in favore di una filosofia semplice e incentrata su una rosa ristretta di pratiche. Il 48,91% dei fondi si limita infatti ad adottare due criteri mentre il 29,86% ne utilizza uno solo. La fetta restante si divide tra il 12,83% che integra tre o più principi, il 6,8% che ne sviluppa quattro e quote ancor più marginali in corrispondenza di una cifre superiori: solo lo 0,47% per cinque, lo 0,94% per sei e lo 0,17% per tutte e sette. Secondo Zerbinati, si tratta di una distribuzione del tutto logica in quanto la messa a terra della finanza sostenibile comporta un costo significativo in termini di risorse sia analitiche sia operative e di gestione. “L’integrazione e l’impact investing richiedono competenze specializzate e un monitoraggio continuo”, spiega Zerbinati, che così spiega la predilezione di molti operatori per opzioni meno onerose come lo screening negativo e normativo.
Una questione di costi
Fonte: Osservatorio Fida sulla sostenibilità nel risparmio gestito
Proprio in materia di rapporto tra costi medi e numero di strategie adottate, è possibile osservare un certa variabilità in funzione dell’asset class su cui si focalizza il singolo prodotto. Nei fondi azionari si osserva ad esempio un incremento progressivo delle spese al crescere del numero di soluzioni, passando dall’1,53% dei veicoli mono-strategia all’1,71% di quelli che ne sviluppano cinque al 2,06% dei veicoli da sette in su. L’unica eccezione è rappresentata dai veicoli che applicano sei soluzioni (0,94%), circostanza che suggerire come questa sia l’unica configurazione multifattoriale a favorire economie di scala e permettere il raggiungimento di risparmi operativi importanti. Se la tessa dinamica si registra anche per la linea diversificata, con gli esborsi che crescono fino al 2,09% per poi scendere leggermente quando viene raggiunta la soglia critica, diversa è la fotografia scattata agli obbligazionari: le spese della categoria risultano infatti relativamente stabili fino alle cinque strategie, superate le quali aumentano fino all’1,53%. “È importante sottolineare che i veicoli con sette strategie rappresentano una porzione molto marginale del campione”, ha detto Zerbinati, chiarendo che la loro inclusione nell’analisi potrebbe alterare le conclusioni e limitare l’estendibilità dei risultati.
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Perché le etichette servono
Fonte: Osservatorio Fida sulla sostenibilità nel risparmio gestito
Ciò che sembra essere garanzia di un approccio ESG più strutturato è invece la normativa, anche a dispetto delle polemiche sollevate negli ultimi mesi da diverse forze politiche d’Oltreoceano sulla tassonomia. Secondo FIDA, i fondi classificati articolo 8 e 9 ai sensi della SFDR tendono infatti ad adottare un numero maggiore di strategie volte alla sostenibilità. “Questo rafforza l’idea che la conformità alla regolamentazione influisca direttamente sulla complessità e sull’estensione dell’integrazione dei criteri ESG nei portafogli”, ha spiegato Zerbinati, che nota come i pochi fondi ad annoverare l’impact Investing nell’ambito dell’Osservatorio FIDA, sia gestiti principalmente da quattro società: Sella, Nordea, Goldman Sachs e Allianz. L’azionariato attivo è messo in atto anche da altri attori, tra cui Pictet, Axa e LGIM.
E anche i rating
Fonte: Osservatorio Fida sulla sostenibilità nel risparmio gestito
Una tendenza chiara emerge anche analizzando la relazione tra il rating di trasparenza attribuito dalla stessa FIDA e il numero medio di strategie ESG adottate dai gestori: gli asset manager con un giudizio più positivo tendono ad adottare un numero maggiore di strategie ESG. Si tratta di un dato che suggerisce come gli operatori più orientati alla sostenibilità siano anche quelli maggiormente disposti a fare disclosure riguardo le loro pratiche e viceversa. In particolare, coloro che raggiungono i livelli più elevati sembrano essere anche quelli che adottano un approccio più completo e diversificato alla finanza etica. “La maggiore trasparenza non deriva quindi dall’obbligo di adottare criteri più complessi”, ha commentato Zerbinati, “ma piuttosto dalla volontà di rendere visibili e comprensibili le proprie pratiche in risposta alle aspettative degli investitori”.
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