Frutticoltura, la Fruit Valley guarda avanti – Economia e politica

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Dal 2000 al 2020 l’Emilia Romagna, la cosiddetta Fruit Valley, è stata colpita da un trend molto negativo, che ha visto la perdita complessiva di 30mila ettari di colture legnose agrarie, di cui 10mila ettari tra pesche nettarine e pere (rispettivamente -32% e -56%), un tempo il fiore all’occhiello della produzione emiliano romagnola a livello mondiale. Al contempo, kiwi, mele e albicocche hanno resistito meglio, seppure con quantitativi minori di terreni coltivati.

 

In soli sette anni questa decrescita preoccupante ha portato al dimezzarsi del valore produttivo della frutticoltura emiliano romagnola, passata da 320 milioni nel 2017 a 116 milioni di oggi, a fronte di un consumo annuo di circa 15 miliardi di frutta in Italia. La regione ha così perso totalmente la leadership nella produzione internazionale di pere, ma al contempo ha sviluppato altre colture, come kiwi e susino, le quali, nonostante le difficoltà date dalla variabilità di prezzi e dall’insicurezza del mercato internazionale, hanno ottenuto nuove quote di mercato.

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Nel complesso l’Italia non ha più il primato produttivo frutticolo, ma l’Emilia Romagna, pur nelle tante difficoltà, può giocare ancora un ruolo fondamentale per la frutticoltura, grazie allo spirito innovativo, alla capacità di fare ricerca, al dialogo fra le istituzioni.

 

Questo il quadro dello stato attuale della frutticoltura emiliano romagnola analizzato dall’Accademia Nazionale di Agricoltura nel corso del convegno “Fruit Valley, guardiamo avanti!” dello scorso 29 novembre a Bagnacavallo (Ra). Un confronto costruttivo tra gli attori della filiera per parlare (anche) delle possibili soluzioni, con proposte concrete e analisi della situazione per agevolare imprese, produttori e consumatori.

 

Ripartire con le Tea e gli aiuti all’imprenditoria

Tra i tanti temi affrontati, particolare rilevanza è stata data alla necessità di progredire in ricerca e innovazione: la ricerca varietale e le biotecnologie sono visti come strumenti fondamentali per portare soluzioni utili ai problemi dati dal nuovo clima. È dunque necessario sviluppare maggiormente le Tecnologie di Evoluzione Assistita (Tea), dando la possibilità ai produttori di sperimentarle quanto prima in campo.

 

Oltre a questo, l’aiuto alle imprese è fondamentale, visti i costi molto alti della manodopera e la difficoltà a reperirla, anche a causa della differenza dei tempi di raccolta di ogni singola tipologia di frutta. Necessaria, dunque, una sinergia tra politica e parte produttiva lavorando in modo congiunto.

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Dal 2019 la produzione di pere è di 400mila tonnellate in meno, bene susino e mele. “Negli ultimi anni i numeri della produzione e della superficie hanno subìto molti cambiamenti – ha affermato Elisa Macchi del Centro Servizi Ortofrutticoli (Cso) – e le pere, un tempo eccellenza mondiale, dal 2019 hanno registrato un vero disastro produttivo, passando da 500mila tonnellate annue alle attuali 100mila. Questo è successo perché, purtroppo, le pere sono i frutti che maggiormente subiscono gli stress del cambiamento climatico. Tale situazione ha portato a un drastico calo della superficie, dai 20mila ettari del 2014 agli 11mila del 2024, e alla riduzione del potenziale produttivo regionale: oggi l’Emilia Romagna riesce al suo massimo a produrre non più di 300mila tonnellate annue. Infine, la ridotta offerta interna vede una perdita di quote sui mercati esteri e l’export è sceso da una media di 150mila tonnellate a poco oltre le 20mila tonnellate nella campagna 2023-2024. Nel 2023-2024 da Belgio e Olanda sono arrivate quasi 57mila tonnellate (40% del totale) e dalla Spagna oltre 42mila tonnellate (circa il 30% del totale)”.

 

“In compenso le mele vanno bene – ha proseguito – sono 5mila gli ettari coltivati, con una tendenza alla crescita mediante una innovazione varietale molto buona; mentre il pesco è in calo con 7.400 ettari, la metà di dieci anni fa, con -6% di pesche e -2% di nettarine, ma il peso dell’Emilia Romagna nella produzione di pesche italiane rimane buono (18% pesche e 36% nettarine). Infine, cresce il susino, con l’Emilia Romagna al primo posto in Italia con 3.800 ettari e il 5% dell’offerta complessiva, essendo l’Italia produttrice per il 10% a livello europeo, dopo la Romania e a pari merito con Spagna e Francia”.

 

Buone notizie dal kiwi

“L’export di kiwi regionale, nel 2023, è stato di 251 milioni di euro, per un valore del 4% del fatturato nazionale e del 41% dell’export complessivo. In regione – ha spiegato Guido Caselli della Camera di Commercio dell’Emilia Romagnala superficie produttiva è di 4mila ettari, quasi 900 di tipologia gialla, produciamo il 18% del kiwi italiano, e rispetto a dieci anni fa le superfici sono cresciute del 6%. In regione cinque grandi imprese realizzano il 60% della produzione regionale, mentre il resto è suddiviso in produttori più piccoli”.

 

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“Da sempre – ha continuato – la Nuova Zelanda è il primo produttore al mondo, ma l’Italia è al secondo posto, col 16% del mercato mondiale. Il primo nostro importatore è la Cina, seguita da Germania e Spagna. Nonostante il problema dell’asfissia radicale la produzione regionale ha retto bene”.

 

L’innovazione entra nel frutteto

“Il modello di frutticoltura moderna, nato a Massa Lombarda agli inizi del Novecento, è in crisi generalizzata da oltre vent’anni. Il semplice produrre frutta non basta più a garantire un reddito per il produttore e, di fronte a questa realtà, sono sorti diversi modelli di frutticoltura, dal biologico, al chilometro zero, alla produzione per vendite dirette online, fino alle consegne a domicilio in tutto il Paese. Tuttavia – ha analizzato Luca Corelli Grappadelli, professore dell’Università di Bolognaqueste sono realtà che funzionano solo per superfici molto ridotte, avvantaggiate per collocazione geografica, facilità di logistica, eccetera. Per l’impresa frutticola che sostiene la maggior parte della produzione primaria, queste soluzioni sono quasi tutte impraticabili”.

 

“Nella ricerca di nuovi paradigmi produttivi che proteggano il reddito del frutticoltore – ha proseguito – potrebbe inserirsi il concetto di agrivoltaico, accoppiando questa forma di produzione di energia alle produzioni vegetali. Per molti motivi la frutticoltura si presta particolarmente a queste forme di coltivazione perché, modulando l’intercettazione luminosa delle chiome senza scendere a livelli di ombreggiamento eccessivi, si possono mantenere rese e qualità del prodotto, con forti risparmi idrici. Al tempo stesso, la disponibilità di elettricità a basso costo permetterebbe di adottare veicoli a trazione elettrica al posto dei tradizionali trattori, eliminando la fonte principale dell’impronta di carbonio del frutteto”.

 

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Agire sulla fiscalità della manodopera

“Prendiamo ad esempio chi ce l’ha fatta come la Spagna. Da quando ha iniziato a produrre in zone desertiche, con aziende dai 50 ai mille ettari di superfici ciascuna, ha dato la spinta decisiva. La frutticoltura del futuro è per le aziende medio grandi – ha affermato il presidente di Macfrut Renzo Piraccinioccorrono dimensione adeguata, organizzazione, riforme sul costo del lavoro per essere competitivi, proprio come ha fatto la Spagna, dove le regioni autonome hanno potuto agire sulla fiscalità della manodopera. In Italia è diverso, ma le regioni a statuto speciale hanno, ad esempio, una tassazione sulla manodopera inferiore del 25% rispetto a regioni come l’Emilia Romagna”.

 

“Occorre tutelare le aziende perché senza di esse il sistema crolla, aiutarle col ricambio generazionale con scelte politiche chiare”, ha concluso.



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