È davvero inaccettabile quanto è avvenuto il mese scorso a Baku, soprattutto nei confronti dell’Africa, in occasione della Cop29, l’annuale Conferenza internazionale di aggiornamento del Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici sottoscritto da 160 Paesi membri dell’Onu. Dispiace doverne prendere atto, ma peggio di così non poteva andare. I negoziatori africani erano giunti nella capitale dell’Azerbaigian carichi di speranze e con alcune richieste molto esplicite. La prima riguardava il nuovo obiettivo di finanziamento, noto come New Collective Quantified Goal (Ncqg).
L’augurio era che i nuovi stanziamenti riflettessero la quantità e la qualità necessarie per affrontare le crescenti esigenze del Sud del mondo e in particolare dell’Africa per affrontare la sfida del cambiamento climatico. In concreto questo si sarebbe dovuto tradurre, da parte dei grandi player internazionali, nel finanziamento di almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035, di cui 400-900 miliardi di dollari avrebbero dovuto essere erogati sotto forma di finanza pubblica.
Sebbene i negoziati siano durati due giorni in più rispetto al programma ufficiale, le delegazioni del Sud del mondo se ne sono tornate a casa con un accordo di soli 300 miliardi di dollari all’anno da qui al 2035, da riscuotere soprattutto attraverso prestiti delle banche di sviluppo e finanziamenti privati. Il che minaccia di aggravare ulteriormente la loro già più che drammatica condizione debitoria.
Fadhel Kaboub, consulente senior del think tank keniano Power Shift Africa è tra quanti hanno deciso di parlare, andando al di là di un linguaggio formale, data la gravità della situazione. In un’intervista al giornale online «African Arguments» ha dichiarato senza mezzi termini: «Alla fine, era chiaro: la COP29 non riguardava il clima. Riguardava una gerarchia economica e geopolitica che non dovrebbe essere disturbata. Perché? Perché una vera azione per il clima implicherebbe che la finanza per il clima sia finanza per lo sviluppo. Una vera azione per il clima significa finanza trasformativa di alta qualità sotto forma di sovvenzioni (non prestiti), cancellazione (non riprogrammazione) di tutti i debiti legati al clima e condivisione/trasferimento di tecnologie salvavita per consentire al Sud del mondo di produrre e implementare i mattoni della resilienza e dell’adattamento al clima, e ciò libererebbe il pieno potenziale del Sud del mondo come potenza economica che non è più bloccata in fondo alla gerarchia economica e geopolitica. E quel potenziale è percepito dal Nord del mondo come una minaccia da gestire ed eliminare, non come un’opportunità per lo sviluppo e l’azione per il clima». Mohamed Adow, direttore dello stesso think tank keniano è stato ancora più severo nel giudizio: «Questa Cop è stata un disastro per il mondo in via di sviluppo. (…) È un tradimento da parte di Paesi benestanti che affermano, ma solo a parole, di prendere sul serio il cambiamento climatico».
Dura è stata anche la reazione di Fred Njehu, stratega politico panafricano di Greenpeace Africa, il quale ha affermato: «L’offerta del Nord globale non è solo inadeguata, è un insulto a tutti gli africani che stanno già soffrendo per i disastri climatici. Questa non è finanza climatica, è colonialismo climatico. Mentre il nostro continente brucia, si allaga e muore di fame a causa di una crisi che non abbiamo creato, le nazioni ricche offrono pochi centesimi mentre intascano miliardi di profitti dai combustibili fossili. Questo accordo finanziario è una lezione magistrale di ingiustizia storica. Tradisce la giustizia climatica e si fa beffe del principio per cui chi inquina paga. Le stesse nazioni che hanno costruito la loro ricchezza sui combustibili fossili per prosperare ora si aspettano che ci facciamo carico dei costi devastanti delle loro azioni con spiccioli».
Come se non bastasse, dall’Ufficio del consigliere speciale delle Nazioni Unite per l’Africa (Osaa) si è venuto a sapere che la promessa di finanziamento di questo ultimo vertice Cop29 rischia di restare in gran parte solo sulla carta, visto che il fondo Loss and Damage, istituito alla Cop28 nel 2023, ha ricevuto solo 10 milioni di dollari dei 730 milioni promessi.
Queste considerazioni mettono in evidenza quella che, alla prova dei fatti, è una vera e propria sperequazione che penalizza fortemente il continente africano nel suo complesso. Pertanto, non poche delegazioni africane e del Sud del mondo in generale, sono rimaste sorprese per la dichiarazione del Commissario europeo al clima Wopke Hoekstra, che ha enfaticamente salutato il documento finale della Cop29 come «l’inizio di una nuova era per la finanza del clima».
Ci sono seri motivi per essere preoccupati considerando che il tema della cosiddetta finanza climatica è cruciale. Continuare a procrastinare la soluzione significa fondamentalmente dimenticare, per esempio, che i fondi di cui sopra servono urgentemente per finanziare il mantenimento dei serbatoi di carbonio come le foreste. Il contrasto al Global Warming generato da estese coperture forestali è un bene pubblico globale per il quale tutti i Paesi che ne beneficiano sono chiamati a contribuire. Senza naturalmente dimenticare che i primi a dover ridurre le emissioni di gas serra sono necessariamente i grandi attori internazionali. Per inciso, proprio a Baku, è stato annunciato che le emissioni cumulate cinesi hanno raggiunto quelle europee. Infine, i fondi servono per l’adattamento al cambiamento climatico e che è – e sarà – più che mai necessario a questo scopo nei paesi più poveri venire loro incontro prima che sia troppo tardi.
E cosa dire del fatto che l’Africa è il continente che meno di tutti contribuisce alla crisi climatica in corso con meno del 4 per cento del totale delle emissioni globali di gas serra? Sta di fatto che più di altri ne subisce i drammatici effetti. Basti pensare a quanto è avvenuto nei mesi scorsi sul versante orientale del continente, investendo addirittura la Regione dei Grandi Laghi. Una calamità causata dalla combinazione di due fenomeni meteorologici: El Niño e il Niño indiano, con il risultato che la superficie dell’Oceano Indiano è risultata essere più calda del solito, favorendo così l’evaporazione e l’intensità delle precipitazioni.
Altrettanto grave è la situazione nel Sahel il territorio da cui attualmente giungono in Italia 9 migranti su 10 di quelli che percorrono la rotta mediterranea. Si tratta di quella macroregione che include dieci paesi fragili: Senegal, Gambia, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Eritrea.
Come spiega Antonello Pasini, fisico del clima e ricercatore del Centro nazionale delle ricerche (Cnr): «Nel Sahel l’aumento di temperatura e il cambiamento nella stagione delle piogge, che avviene a causa del riscaldamento globale ma anche per l’attività di deforestazione degli ultimi decenni, stanno producendo un fenomeno molto intenso di desertificazione. I terreni fertili si degradano e le risorse idriche vengono sempre più diminuendo. Si pensi, ad esempio, che la superficie del lago Ciad dagli anni ’60 si è ridotta di ben 17 volte, a causa dell’azione congiunta di cambiamenti climatici e di emungimenti insostenibili di acqua».
Se a questo si sommano una corruzione diffusa e l’azione spesso spregiudicata e predatoria di multinazionali straniere, è evidente che il cambiamento climatico sta amplificando a dismisura le crisi in Paesi già fragili, crisi che sempre più spesso si manifestano in conflitti e mobilità umana.
Il cammino, purtroppo, guardando al futuro, sembra davvero essere tutto in salita. Soprattutto perché la sfida, prima ancora sociale, politica o economica, è culturale e deve essere orientata al bene comune dei popoli. Emblematico al riguardo è stato Messaggio del Santo Padre Francesco pronunciato a Baku dal cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin: «È essenziale cercare una nuova architettura finanziaria internazionale che sia incentrata sulla persona, audace, creativa e basata sui principi di equità, giustizia e solidarietà. Una nuova architettura finanziaria internazionale che possa davvero assicurare a tutti i Paesi, specialmente quelli più poveri e quelli più vulnerabili alle catastrofi climatiche, vie di sviluppo sia a bassa emissione di carbonio sia di alta condivisione, che permettano a tutti di raggiungere il pieno potenziale e vedere rispettata la propria dignità. Abbiamo le risorse umane e tecnologiche per invertire la rotta e perseguire il circolo virtuoso di uno sviluppo integrale che sia davvero umano e inclusivo».
di Giulio Albanese
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