Narrazioni e luoghi comuni hanno poco senso. Ancora di più se si parla di Sicilia

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Il nuovo libro di Franco Lo Piparo ricostruisce otto secoli di storia della lingua siciliana per dipanare il mistero della presunta identità senza lingua propria. Un pamphlet politico e tagliente, che delinea un’isola “continentale” fin dalle origini


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Nessuno può dirsi al sicuro dai luoghi comuni. A maggior ragione se essi riguardano il concetto di identità. E ancor più se l’identità è quella della Sicilia, costruita, tra nevrosi e paradosso, attraverso una ricorsiva cumulazione di mitologemi e truismi. Narrazioni che – da Gentile a Tomasi e Aglianò – hanno alimentato un’idea antimoderna dell’isola, refrattaria alla storia, nostalgicamente chiusa in se stessa; di contro a posizioni come quella di Vittorini per il quale, siciliano continentale, “la Sicilia non è un luogo unico, peggiore o migliore altri luoghi dell’Italia o del mondo”. E’ questo il cuore pulsante di “Sicilia isola continentale. Psicoanalisi di una identità” di Franco Lo Piparo, edito da Sellerio (2024). L’autore è filosofo del linguaggio, studioso di Gramsci e di Wittgenstein, che già nel 1987, nella Storia della Sicilia di Einaudi (curata di Aymard e Giarrizzo) aveva posto, con il saggio “La Sicilia linguistica”, le premesse per quanto qui indagato, ovvero la “presunta identità siciliana, i suoi equivoci, i racconti, fatalmente raggrumantesi in luoghi comuni,” analizzata a partire da una puntuale analisi linguistica.

Lo Piparo è scrittore che gioca a carte scoperte con il lettore, al punto che Isidoro di Siviglia in esergo – “Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt” – sintetizza, per contrasto, la sua tesi di fondo: i siciliani si autorappresentano come “un popolo culturalmente autonomo e diverso dal resto dell’Italia” ma non rivendicano mai un idioma che esprima la propria specificità etnica. Fino al paradosso di Andrea Finocchiaro Aprile, leader del separatismo siciliano, che definisce la Sicilia “il solo paese di lingua italiana rimasto saldamente in piedi” al termine del Secondo conflitto mondiale. L’agile ricostruzione di otto secoli di storia della lingua siciliana è, per l’autore, il solo modo per dipanare il mistero della presunta identità senza lingua propria. Ne risulta un’isola “continentale” fin dalle origini: il siculoitaliano è il il portato di una invasione, quella normanno-sveva, che ripopola l’isola, sottratta al dominio islamico, con massicci spostamenti di contadini dal “Continente”. Si sviluppa parallelamente al toscoitaliano, cosa che ha reso possibile che nel XIII secolo i poeti federiciani fossero leggibili, senza bisogno di traduzione, in area toscoemiliana, come adesso sono comprensibili a tutti gli italofoni Camilleri ma anche scrittori semianalfabeti e “orali” come Tommaso Bordonaro o Vincenzo Rabito. 

Questo saggio è però anche un pamphlet politico d’aura illuminista in cui, con il suo procedere serafico e tagliente, Lo Piparo scherza con i santi, additando tante vittime illustri dei luoghi comuni sull’identità siciliana, da Gramsci a Stendhal, a Marx fino a Gentile, Martoglio, Aglianò e allo stesso Sciascia: “La mitologia dei non siciliani sulla Sicilia ha il suo corrispondente complementare nella mitologia sicilianista di molti siciliani colti”. La Sicilia colta che ha dato mostra del peggiore sicilianismo, tra questua e piagnisteo, nell’art. 38 dello Statuto autonomo della Regione Sicilia (“Un evento che si porta dietro, rafforzandoli, tutti gli equivoci, della identità siciliana”) che prevede un fondo di solidarietà permanente per equiparare il reddito siciliano a quello nazionale. Ovvero un modo istituzionale, ma di cinica codardia, per sottrarsi a una storia condivisa, barattando la presunta autonomia con una sostanziale, volontaria, subalternità.

Al termine della lettura di Sicilia isola continentale il mitologema della identità siciliana non può che ricordarci Bendicò, l’amatissimo cane del Principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa che, impagliato, finisce per volare fuori dalla finestra, ovvero fuori dalla storia, come succede – lo sostenne Goethe dopo aver visitato Villa Palagonia a Bagheria –  a ogni “nulla che pretende di essere qualcosa”.

 





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