Pensioni, come stanno veramente le cose su rivalutazione dei trattamenti e anticipi nella manovra di bilancio

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Le pensioni sono sempre il terreno privilegiato della demagogia che accende la lotta politica. Ma sui pensionamenti anticipati e sulla rivalutazione dei trattamenti la realtà è spesso diversa da quella che viene dipinta nei talk show

Le pensioni sono una sorta di vaso di Pandora da cui è molto facile fare uscire il maleficio della demagogia. Del resto, in Italia vi sono ben 16 milioni di pensionati protetti da una narrazione a bella posta falsificata che – dai libri di testo delle elementari fino ai talk show televisivi – rappresenta i percettori di trattamenti pensionistici alla stregua di poveri in canna che riescono ad arrivare a fine mese solo grazie alla capacità di moltiplicare i pani e i pesci. Il Governo nella manovra di bilancio all’esame del Parlamento si è attenuto in questa delicata materia al minimo sindacale riconfermando alcune vie di uscita particolari che tengano conto di situazioni di effettivo bisogno per accedere ad anticipi del pensionamento (Ape sociale, lavori usuranti e disagiati, condizioni individuali e familiari di difficoltà, precoci, opzione donna) in un contesto complessivo che ha invertito le finalità delle misure introdotte dal Conte 1 (giallo verde) tese a favorire il pensionamento anticipato (quota 100 e blocco dei requisiti rispetto all’incremento dell’attesa di vita). Oggi quelle stesse forze politiche che avevano dichiarato guerra alla riforma del 2011 sono le stesse che esprimono un titolare del Mef che ha demolito il ‘’vizio assurdo’’ del sistema pensionistico italiano, nel quale le pensioni anticipate di anzianità prevalgono come numero, importo e spesa su quelle ordinarie  di vecchiaia.

La torta del Paese dell’anticipo

Si sa che il diavolo infila la coda nei dettagli. Nel bilancio 2024 il governo inciampò in una norma che voleva eliminare un privilegio sopravvissuto nel pubblico impiego e in particolare per il personale sanitario, che consentiva un incremento del 25% del trattamento a favore di coloro che fossero in grado di recuperare (anche attraverso il corrispondente riscatto della laurea) un anno in regime retributivo. Fu un gioco da ragazzi per le opposizioni accusare il governo di ingratitudine nei confronti della categoria che aveva combattuto l’epidemia di Covid e indurre il governo a fare marcia indietro e ad individuare una soluzione di compromesso. Nelle norme sulla previdenza inserite nel ddl di bilancio 2025 lo scandalo è un altro. Basta accendere la tv e seguire un talk show de La7 per sentir rinfacciare al governo un incremento di soli 1,8 euro mensili sulle pensioni minime: un’offesa per i pensionati che sopravanza un’altra misura contenuta nel ddl ovvero il ripristino dei criteri della rivalutazione ordinaria a scalare rispetto  al costo della vita, manipolati per esigenze di fare cassa in fretta da tutti i governi succedutisi negli ultimi vent’anni, con la sola eccezione di quello presieduta da Mario Draghi. Pertanto il prossimo adeguamento dei trattamenti al tasso di inflazione avverrà  sulla base di tre livelli differenti di aumenti  secondo quanto stabilito dalla Legge n. 388 del 2000: 

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  • il 100% per i soggetti che percepiscono meno di tre volte (quattro?) l’assegno minimo;
  • il 90% per coloro che ricevono tra tre (quattro?) e cinque volte il minimo;
  • il 75% per chi prende oltre cinque volte il minimo.

Ma questo esecutivo sembra essere incapace di difendersi; le forze della maggioranza, avvezze ad anni di opposizione demagogica finiscono per non capire neppure ciò di cui sono necessari protagonisti. Sarebbe infatti sufficiente spiegare che quell’importo modesto corrisponde al dovuto rispetto al tasso di rivalutazione applicato nel 2025. E che non è la prima volta (si veda la tabella per gli anni 2000-2024) che gli incremento sono modesti. In aggiunta nell’incremento di 1,8 euro c’è un di più che non sarebbe dovuto.

In tabella sono riportate le percentuali di indicizzazione automatica previste nell’anno in corso. Per spiegare l’arcano, sull’importo della pensione minima fu apportato un incremento compensativo di una quota di inflazione da 598 a 614 euro circa, con l’indicazione che tale operazione sarebbe stata in vigore solo per quell’anno, in ragione della impennata dell’inflazione. In sede di bilancio per il 2025 il governo si è accorto però che anche applicando la scala corretta all’importo non maggiorato dei 598 euro , essendo l’inflazione presa a riferimento pari all’1,6%, l’ammontare della pensione minima finiva nel 2025 per essere inferiore di quella erogata nell’anno in corso; così ha previsto che la rivalutazione sia pari al 2,2% apportando un incremento di soli 3 euro rispetto all’importo del 2024. Per ricapitolare: la rivalutazione sarà del 2,2% nel 2025 e dell’1,3% nel 2026. Nel 2024 l’asticella dell’indicizzazione all’inflazione di questi trattamenti era stata posizionata a quota 2,7%. Con decreto del 10 novembre 2024 il tasso di rivalutazione fissato per il prossimo anno è stato rideterminato al 0,8% mentre nessun conguaglio è dovuto sulla rivalutazione 2024, confermata al 5,4% già riconosciuta in via provvisoria. Ne è derivato che l’incremento sarà di soli 1,8 euro.

Il conto non si fa dunque sulla base del costo di un caffè, ma secondo un groviglio di regole e di provvedimenti applicativi che si basano principalmente sul tasso di inflazione preso a riferimento (salvo conguaglio). Bisognerebbe che gli esponenti della maggioranza fossero capaci di spiegare questi meccanismi quando vengono messi sotto accusa nei dibattiti. E soprattutto, quando un partito della maggioranza – come Forza Italia – si è data come obiettivo quello di raggiungere 1.000 euro al mese per le pensioni minime, dovrebbe evitare di raccontare che un modesto incremento di 1,8 euro al mese (dovuto a tutti altri motivi) costituisce un passo verso quell’obiettivo.



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