Perché c’è ancora un presepe nell’atrio della nostra scuola?

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Perché c’è un presepe nell’atrio della scuola? Scrivo nella chat del comitato genitori della primaria pubblica di mio figlio, in un pomeriggio freddo e umido come capita solo nella provincia emiliana, mentre le notifiche continuano a mostrarmi commenti entusiasti alle foto dell’allestimento dove, tra un albero di Natale e colorati pacchetti regalo, spicca un enorme presepe.

Allargo la foto con le dita per essere sicura di aver visto bene, e in automatico, con lo stesso spirito di quando Frodo capisce che la missione dell’anello richiederà il suo sacrificio, mi siedo sul divano e scrivo il WhatsApp, con la vaga speranza di trovare qualche alleata tra le 43 persone partecipanti alla chat, la maggior parte delle quali mamme rappresentanti di classe, e la quasi certezza di sollevare una polemica che mi porterà a essere la più odiata del gruppo. Spoiler: ha vinto la seconda.

La chat è il paese reale

Provo a prenderla larga, chiedo di chi è stata la decisione di allestire il presepe, specificando che si tratta di un simbolo religioso non rappresentativo di tutte le culture che animano la scuola e che, se sui crocifissi non si può fare nulla, su questo forse si può aprire una riflessione.

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Due secondi dopo arriva la prima risposta: «Il Natale è una festa religiosa», e, subito dopo, «Il presepe si fa nelle scuole da millenni, non capisco perché ci debbano rimettere i bambini a cui piace», e, di seguito, per mettere un punto: «Chi non lo vuole, non lo guarda».

Il termometro della mia rabbia segna una temperatura altissima, ma faccio un respiro e provo a riportare la conversazione su un piano di confronto costruttivo – una parte di me pensa che nessuno mi restituirà questo tempo, come quando guardo una serie tv orribile, mentre l’altra ripete che è più importante parlarne qua che nella tua bolla – e, mentre cerco di capire chi sono e dove voglio andare, una mamma risponde alla mia domanda, spiegando che sono state le maestre a dire che il presepe si doveva fare.

Le stesse maestre che hanno attaccato le illustrazioni di volti di bambini provenienti da ogni parte del mondo con la scritta “Insieme siamo unici”, a sottolineare la vocazione interculturale della scuola, sono quelle che hanno chiesto ai genitori volontari di piazzarci un presepe gigante sotto.

A farmi scegliere chi sono – un’illusa che crede ancora nell’umanità e nella forza del cambiamento nonostante le ripetute testate contro giganteschi muri – è un messaggio piuttosto articolato che si conclude così: «Quando andiamo in altri stati di religione diversa nessuno si scandalizza o tantomeno si preoccupa di togliere simboli religiosi non appartenenti agli usi e costumi degli ospiti». Il cervello fa click e non posso più tornare indietro.

Siamo un paese razzista

Una mamma, in una chat del comitato genitori di una scuola primaria pubblica frequentata per più di metà da bambine e bambini con background migratorio, ha paragonato i compagni di classe di suo figlio, molti dei quali nati e cresciuti in Italia come lui, a degli ospiti. Sotto, fioccano i like. Quanti like hanno avuto i miei messaggi? Uno, forse due. Qui fioccano.

La verità è che continuiamo a essere un paese razzista, dove, mentre ci raccontiamo che “ci vuole tempo per queste cose”, ci sono intere generazioni che crescono senza sentirsi mai veramente parte della comunità che abitano, ragazze e ragazzi con radici altrove, “stranieri” sia qua che nel paese di origine delle loro famiglie: troppo poco italiani per una parte, troppo italiani per l’altra.

Siamo un paese così spaventato da pensare che togliere un presepe dall’atrio di una scuola pubblica significhi perdere un pezzo della propria identità culturale – senza capire che l’identità non è qualcosa di statico – che la senatrice Lavinia Mennuni, di Fratelli d’Italia, lo scorso anno portò avanti una proposta di legge per impedire ai dirigenti scolastici di rifiutare iniziative promosse da genitori, studenti o dai componenti di organi scolastici «volte a perpetuare le tradizionali celebrazioni legate al Natale e alla Pasqua cristiana, come l’allestimento del presepe, recite e altre simili manifestazioni».

Il caso esplose dopo che in alcune scuole i presidi decisero di allestire solo l’albero di Natale, in rispetto delle culture di tutte le persone che attraversano i loro istituti – la scuola come spazio laico e democratico – portando avanti una riflessione che ha a che fare con la non-esclusività, il rispetto, il dialogo, la contemporaneità e il futuro. Molto lontana da scuole dove si calendarizza la festa di fine anno in pieno Ramadan, senza minimamente porsi il problema.

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Chi fa (ancora) religione?

Torniamo alla chat: «Non ho capito ma il Natale festeggia Babbo Natale o Gesù? Forse vi sfugge qualcosa». In effetti qualcosa ci sfugge, penso. I numeri. Guardo mio figlio e gli chiedo quanti fanno con lui alternativa – bambino di origine Italiana, non battezzato, a prova che non sono solo “quelli di un’altra religione” a non farla – e me li elenca per nome contandoli sulle dita di due mani: dieci bambine e bambini su una classe di 19. Di che cosa stiamo parlando?

Secondo la ricerca 2024 “Nessun Dogma”, a cura di Uaar, nelle scuole pubbliche italiane, nonostante il calo del numero assoluto di studenti, risulta in crescita quello di chi non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica: nel 2020/2021 erano in media poco più del 14 per cento, mentre due anni dopo sono diventati il 15,5 per cento.

I dati, inoltre, confermano il divario tra nord e sud, con regioni come Puglia, Campania, Basilicata e Calabria dove si oscilla tra il 3 e il 4 per cento mentre in altre si raddoppia la media nazionale: la Valle d’Aosta guida la classifica con il 30,74 per cento, seguita da Emilia-Romagna (27,48 per cento) e Toscana (27,12 per cento).

Tra le province, sono sei quelle dove è stata superata la soglia del 30 per cento: Firenze (37,92 per cento), Bologna (36,31 per cento), Trieste (33,37 per cento), Prato (33,19 per cento), Gorizia (32,51 per cento) e Aosta (30,74 per cento).

«Nelle scuole superiori del capoluogo toscano», si legge nella ricerca di Uaar, «il 69,7 per cento degli studenti non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica: ciò significa che un’ora a settimana due studenti su tre escono dall’aula e l’insegnante impartisce ai pochi rimanenti la sua lezione conforme alla dottrina della chiesa». Perché continuare a proporla? Ah, già: i Patti Lateranensi di quasi cento anni fa.

Chiediamolo a “loro”

«Mi piacerebbe sapere il punto di vista di chi è di religione diversa: magari siamo noi a pensare che dia fastidio» e ancora «Litigare tra di noi che veniamo dallo stesso ambito socio-culturale mi sembra un po’ eccessivo» e quindi «chiediamolo a loro». Solo che “loro” nella chat del comitato genitori di una scuola pubblica a vocazione interculturale, praticamente non esistono, a dirmelo è la lista dei partecipanti su WhatsApp.

La chat rimane silenziosa per diverse ore. Poi una notifica, il messaggio di una giovane mamma italiana musulmana, che in poche righe decostruisce un sistema che per molte era rassicurante: «Penso che l’inclusione sia anche percepire l’esigenza, a volte non verbale, di chi abbiamo quotidianamente intorno a noi perché magari non ha il coraggio di dire che una cosa in realtà non la gradisce ma pur di essere accettati dice sì, sì, per me non ci sono problemi».

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La chat si zittisce di nuovo, ma ora quel silenzio prende la dimensione di un rumore assordante, fatto dalla somma di tutta la paura, razzismo, difficoltà, rancore, idee polarizzate, pregiudizi, incapacità di accogliere e provare curiosità per chi ha una storia diversa dalla nostra. Il problema non è il presepe, che resterà lì per tutte le festività come una fragile rassicurazione, ma la nostra incapacità di adulti, parte di una comunità educante, di contribuire a trasformare la scuola – e quindi l’intera comunità – in uno spazio accogliente, partendo dalla consapevolezza che ad attraversarla sono persone con idee, percorsi, culture, problemi e bisogni diversi.

Evitare di allestire un presepe nell’atrio di una scuola pubblica non significa cancellare un pezzo importante della cultura italiana o impedire agli insegnanti di spiegare il significato del Natale, ma solo mettersi in ascolto e costruire uno spazio dove tutti si sentano a proprio agio e rispettati. Dove non ci sono più dei loro, ma solo dei noi.

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