Right or wrong my country, ripetono nelle isole britanniche, mai più invase dopo il 1066. Giusto o sbagliato, i giudici della Corte Costituzionale di Bucarest sono parsi agire come i piloti inglesi nel 1940 contro i bombardieri nazisti: hanno scorto all’orizzonte una minaccia grave alla sovranità del Paese e sono corsi a neutralizzarla. Ma assai più che la Raf nella battaglia d’Inghilterra, la Corte rumena si è assunta la responsabilità ultima di annullare l’esito di un voto formalmente democratico, senza possibilità d’appello a quarantott’ore dal ballottaggio per l’elezione del Presidente, rilevante in un sistema a matrice semipresidenzialista.
È stata una scelta “iper-politica” – d’impatto non solo interno – da parte di un organismo non direttamente elettivo nella democrazia di un Paese dal 2007 aderente all’Ue. I nove giudici costituzionali di Bucarest sono nominati (tre a testa) dal Presidente della Repubblica e dai due rami del Parlamento. Come previsto dalla Costituzione, il caso delle interferenze russe nel voto romeno è stato sollevato presso la Corte direttamente dal Presidente Klaus Iohannis, in uscita dopo due mandati quinquennali.
È stato lui a rendere pubblici, mercoledì scorso, alcuni rapporti d’intelligence che rilevavano un’estesa infiltrazione digitale in vista del primo turno delle presidenziali, il 24 novembre. Sarebbe stata quell’azione – riconducibile alla Russia – a favorire l’affermazione inattesa di Calin Georgescu, un diplomatico vicino all’estrema destra sovranista e filo-Putin. Seconda si era classificata Elena Lasconi, liberale filoeuropea (vicina a Iohannis), mentre il socialdemocratico Marcel Ciolacu – favorito nei sondaggi – era giunto solo terzo.
La Corte costituzionale ha inizialmente convalidato il responso delle urne – contestato dai due candidati di minoranza – pur ordinando indagini alla Procura generale. Nel frattempo l’1 dicembre in Romania si sono svolte elezioni politiche, che hanno registrato l’affermazione dei socialdemocratici, ma con una forte avanzata dell’estrema destra. Di qui lo showdown della Corte su input di Iohannis: un personaggio controverso, da ultimo auto-candidato anche a segretario generale della Nato.
Nato in Transilvania in una famiglia della minoranza tedesca, ha costruito la sua carriera nel partito liberalnazionale come rappresentante della storica comunità “sassone” in Romania. Nominalmente europeista e atlantista, nel suo secondo mandato si è però attirato critiche crescenti per aver favorito misure a sospetto di illiberalismo, anzitutto sul terreno della libertà di stampa. L’Economist ha classificato la Romania all’ultimo posto fra i Ventisette nel suo ultimo rapporto sullo stato della democrazia: giudicato in Europa più problematico di quello dell’Ungheria di Viktor Orbán.
Questo premesso, Iohannis – eletto democraticamente per due volte consecutive dai romeni alla più alta carica del loro Stato – ha sollecitato tutti nel Paese a rispettare la decisione della Corte suprema e ha annunciato di voler rimanere in carica fino a che un nuovo Presidente sarà eletto, con la ripetizione del voto. Nel frattempo Georgescu sta però già gridando al golpe, confermando che il caso non è affatto chiuso e non è affatto materia riservata a giuristi e politologi.
“Chi giudica i giudici supremi?” è un titolo del New York Times di giovedì scorso. Non riguarda la Corte rumena ma quella degli Stati Uniti d’America. Che i “dem” Usa vorrebbero cambiare in corsa nella sua regolamentazione costituzionale perché accusano preventivamente Donald Trump – vincitore al voto democratico per la Casa Bianca – di volerne demolire l’indipendenza: peraltro continuando a esercitare, come nel primo mandato, poteri consolidati da due secoli nell’architettura istituzionale statunitense.
Chi decide in Romania se un candidato alla presidenza è “inaccettabile” perché sostenuto da un Paese straniero (quali candidati, sostenuti da quali Paesi stranieri)? Quale autorità di un Paese democratico, membro del “super-Stato” Ue, può spingersi a cancellare – senza “checks and balances” – il voto sovrano di una nazione?
I piloti della Raf decollavano da un istante all’altro e non ci pensavano un attimo a sparare contro gli aerei della Luftwaffe: per loro era certamente right eseguire ordini che venivano da un Governo di unità nazionale sostenuto da un Parlamento democraticamente eletto. E la Gran Bretagna era in guerra dichiarata con la Germania hitleriana. Ma in Romania, cioè nell’Ue?
Forse sono dubbi imperdonabili da “Putinversteher”, da pacifisti/disfattisti conniventi della Russia, come vengono sbrigativamente liquidati tutti coloro che la pensano diversamente sulla guerra in corso da quasi tre anni fra Russia e Ucraina. A proposito: dopo il caso romeno, l’Ue terrà ancora le porte spalancate per Kiev? Right or wrong Europe: ma quale?
P.S.: La Corte costituzionale italiana continua a essere incompleta nel suo organico perché dopo undici scrutini parlamentari a vuoto, la maggioranza di governo – democraticamente eletta due anni fa – non riesce a nominare un proprio candidato. La legge prevede un voto nei fatti condiviso con l’opposizione, che nei fatti agisce però con fini politici ostruzionistici, tradendo il dettato costituzionale orientato alla valutazione del profilo del candidato. Così il Parlamento continua a vedersi mutilato del suo potere di nominare anche uno soltanto di cinque giudici costituzionali di sua competenza. Gli altri dieci sono di fatto tutti designati dal presidente della Repubblica: cinque direttamente, cinque attraverso gli organismi giudiziari che fanno capo alla vigilanza del Quirinale. Dove da più di 18 anni siede ininterrottamente un leader dell’attuale opposizione. Di un partito che non ha mai riportato un’affermazione netta alle elezioni politiche. Nel frattempo – anche in Italia – cresce il dibattito posto dal Nyt: “Chi giudica i giudici supremi”? Chi decide quali sono i confini della loro competenza e quali invece sono le scelte “iper-politiche” che non spettano a loro, né al Quirinale, ma solo a Parlamento e Governo?
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