Il nodo è chiaro: la Sardegna resta inserita in un perimetro tracciato altrove, dove le decisioni cruciali sono appannaggio di un centro di potere esterno. Il riferimento ai “6,5 Gigawatt di produzione energetica che lo Stato italiano ha imposto alla Sardegna” è essenziale per comprendere l’angolo prospettico degli indipendentisti. Il loro argomentare non si limita alla denuncia retorica, ma punta alla sostanza: il decreto non cambia le regole del gioco, non mette in discussione la quota fissata da Roma, non introduce elementi di sovranità effettiva. Da qui l’uso del termine “coloniale”: un aggettivo usato non per vezzo polemico, ma per segnalare il senso di una terra trasformata in piattaforma energetica per volere altrui.
Il comunicato insiste più volte sulla mancanza di una strategia genuinamente sarda, un piano energetico proprio che definisca, in modo autonomo, “quanta energia la Sardegna debba effettivamente produrre per soddisfare il proprio fabbisogno”. Quel che si dipinge è l’assenza totale di un confronto paritario con lo Stato italiano, la mancanza di un braccio di ferro che “Repùblica” avrebbe voluto vedere, forte del sostegno di “oltre duecentomila sardi, cittadini, associazioni, amministratori, comitati” che, firmando la Legge Pratobello, esprimevano un’opposizione coerente e pacifica al modello imposto. Invece, le firme restano inascoltate, ridotte a semplice pettegolezzo istituzionale. “La Giunta Regionale sta operando senza legittimazione popolare”, si legge nel documento, avvelenando la pretesa di rappresentanza.
Una denuncia che mostra come, alla base, vi sia una crepa tra istituzioni e cittadini, non sanata né dalla partecipazione né dall’ascolto.
“Repùblica” va oltre la critica di merito e investe il cuore dell’assetto democratico. La legge elettorale regionale, definita “totalmente antidemocratica”, impedisce una rappresentanza completa, taglia fuori decine di migliaia di elettori e numerose forze politiche. Questo non è un dettaglio: l’accusa è che il sistema, così congegnato, sterilizzi il dissenso, neghi il conflitto come motore di evoluzione sociale. Nella visione di “Repùblica”, senza scontro non c’è crescita, senza riconoscimento delle istanze divergenti non si avanza. “Ed è per questo che il conflitto nella democrazia è riconosciuto. Solo il fascismo ha una visione della società senza conflitti.”
Il messaggio conclusivo è un colpo secco: l’autonomismo al potere si comporterebbe come un mediatore passivo tra Roma e la Sardegna, punendo il proprio popolo e “abbassando la testa” con lo Stato. La parabola è chiara: invece di investire sul consenso sardo, di capitalizzare la volontà popolare per stringere un confronto duro con il centro, i partiti italiani al potere in Sardegna preferirebbero la placidità della sudditanza. Gli indipendentisti dipingono un panorama dove ogni pensiero autonomo rischia di trasformarsi in un vuoto slogan, dove la Regione funge da filtro repressivo, soffocando quel movimento di idee e proposte che dovrebbe essere il carburante naturale di una vera democrazia locale.
Se lo si legge in controluce, questo comunicato di “Repùblica” è un appello disperato a prendere coscienza dei rapporti di forza, a non cedere alla rassegnazione. Che si sia o meno d’accordo con le loro posizioni, le loro parole denunciano un preciso stato di cose: “La Sardegna non si farà più calpestare” non è semplicemente un grido, è il segnale che qualcosa, sottopelle, sta muovendosi. In una realtà dove i Gigawatt richiesti da Roma non possono essere ridiscussi, l’autentica partita politica – quella che “Repùblica” vorrebbe vedere – non è mai iniziata. E forse è proprio questa l’accusa più bruciante.
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