Genitori separati e figli contesi. Ecco i veri motivi del conflitto

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C’è un argomento in Italia di grandissimo impatto popolare eppure del tutto trascurato, ovvero mal risolto, dalle istituzioni. Si tratta dell’affidamento dei figli dopo la rottura del legame di coppia tra i genitori. È un tema sul quale tutti pensano di sapere tutto. I magistrati passano alla sezione famiglia con disinvoltura, provenendo magari dalla sezione fallimenti; tanto è facile. E lo stesso vale per l’avvocatura. Il diritto di famiglia lo praticano tutti, tra un recupero di crediti e un sinistro stradale. Questo perché i criteri ai quali ci si deve ispirare sono pochi e semplici. Al primo posto c’è “l’interesse del minore”. Obbedendo ad esso, i genitori non devono litigare, gli avvocati non devono aggredire o demolire la controparte, il magistrato deve stabilire regole che rispettano i suoi diritti, ovviamente corrispondenti al suo interesse.

Avviene questo? Purtroppo no.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Il vecchio modello monogenitoriale continua ad essere praticato con ritocchi solo nominalistici. E neppure completi e coerenti: non a caso si continua a parlare di “diritto di visita”. Certo, il genitore affidatario oggi si chiama “collocatario”. E con ciò? A lui, come prima, spettano pressoché per intero la cura dei figli, i sacrifici e le responsabilità. “Lui”? Meglio dire “lei”. La maternal preference domina la scena, con applicazioni che vanno ben al di là di quanto è plausibile statisticamente, utilizzata in concomitanza di una “dottrina della tenera età” che arriva disinvoltamente alle scuole superiori. Un trionfo di ipocrisia e falsi ideologici, che vanno dallo strapparsi i capelli per la privazione del diritto alle pari opportunità che colpisce le donne – dopo averle impiccate in esclusiva nel ruolo di mamme -, al conclamato diritto alla bigenitorialità per i figli, ogni volta rammentato con grande enfasi, ma sistematicamente violato attraverso provvedimenti asimmetrici e sbilanciati, tranquillamente preannunciati e ufficializzati da protocolli e linee guida. E senza comprendere che discriminare tra soggetti giuridicamente uguali vuol dire convincere molti di avere subito un sopruso e di lì accendere il conflitto e la rabbia. Matrici della violenza. Vuol dire non avere capito, o non avere osservato, che al di là degli atti estremi come il femminicidio, i ben più comuni, e perciò più inammissibili, maltrattamenti in famiglia di fonte maschile nascono da situazioni che non dovrebbero esistere e si accompagnano a frasi che non dovrebbe essere possibile pronunciare, come “Vattene. Questi figli ormai te li scordi”.

Così come si dovrebbe fare attenzione a ciò che genera nei figli l’idea che un genitore del tutto incolpevole possa essere rifiutato. Fenomeno di incidenza sempre più frequente; tanto che è stato introdotto il principio della “autodeterminazione del minore”. Ovviamente solo nella famiglia separata; con buona pace del fondamentale principio della unicità della filiazione e dei diritti dei figli. Nella famiglia unita a nessun figlio viene in mente che un genitore possa essere allontanato o ignorato; salvo ovviamente casi estremi, patologici. E la rottura del legame dovrebbe essere solo di coppia, limitata al rapporto tra gli adulti e non incidere su quello fra genitori e figli. Il che avverrebbe stabilendo un vero affidamento condiviso, paritetico. Con il che nella stragrande maggioranza dei casi non avrebbe senso parlare di alienazione, manipolazione e simili. Ovvero ci saremmo risparmiati l’estenuante e sterile dibattito sulla “Pas”…

E vuol dire anche, scendendo di livello, che sostituire uno squallido assegno, trasferito da banca e banca, all’assunzione diretta di compiti di cura comprensivi dell’onere economico, vissuti nella quotidianità, vuol dire privare i figli della gradevole e rassicurante sensazione, confermata ogni giorno, di essere assistiti e amati da entrambi i genitori. E vuol dire anche preoccuparsi delle fasce sociali meno bisognose di attenzione. La contribuzione mediante assegno, infatti, può essere vista di buon occhio da mogli separate da imprenditori e professionisti altoborghesi, che nella cura domestica e dei figli hanno avuto l’aiuto di colf e governanti. Ma ci si è chiesti quanto l’assegno possa ingolosire l’operaia o la cassiera che si separano da un impiegatuccio, rispetto alla sua partecipazione ai compiti e alle spese di tutti i giorni? Quanto c’è di “sociale” in questa scelta? Anche se, bisogna ammetterlo, è molto più semplice e meno faticoso per il giudice buttare giù una cifra piuttosto che pensare ed elencare delle competenze…

E il potere politico cosa fa, in questa situazione? Una parte, facilmente identificabile nell’attuale maggioranza (lo dicono le cronache parlamentari), nei lunghi anni che hanno portato all’approvazione della legge 54 del 2006 ha ripetutamente tentato, ogni volta che andava dal governo, di introdurre regole coerenti con i principi costituzionali (art. 30), sistematicamente osteggiata dallo schieramento contrario, autodefinito “progressista”, ma sul tema accanitamente conservatore. E così non si risolveva nulla, in una continua alternanza che ricorda l’episodio dell’Esodo: quando Mosé alzava le braccia vinceva Israele e quando le abbassava prevaleva Amalek. Si sarebbe quindi portati a prevedere che, adesso che ci sono i numeri e la stabilità necessari, una riscrittura della normativa – già pronta, lì, dietro l’angolo – stia per essere varata. Purtroppo non è così. Il testo esiste, aggiornato e limato con grande cura, collaudato attraverso l’esperienza delle passate legislature (come il ddl 957 che in una forma simile è già passato al vaglio della commissione giustizia del Senato).

Ma oggi la maggioranza pare presa da un “grande sonno”. Non lo prende in mano, lo lascia lì, quale fiore non colto, sterile attestato di incomprensibili limitatezze politiche. Con grande soddisfazione della parte avversa – è lecito immaginare -, quella riformista e progressista, che di tutti i diritti civili pare preoccuparsi tranne che di questo, confermando un “lungo addio”, costantemente praticato nel tempo, alla volontà di soccorrere le famiglie in crisi, al diritto alla bigenitorialità per i figli e alle pari opportunità per le madri.

Una parola di speranza, tuttavia, è giusto dirla. I libri sacri lo suggeriscono. Una vedova non riusciva a ottenere giustizia, nonostante la bontà della sua causa, da un magistrato renitente ai suoi doveri (Lc. 18 1-8). Tuttavia insistette. Tante e tante volte si presentò da lui che alla fine questi, molto infastidito dalla sua pressione, decise di farle giustizia, sia pure solo per levarsela di torno e non per onesti intendimenti. Ma che importa? Ci sono migliaia di persone, le più deboli e fragili, da anni in paziente attesa. Diamo loro soddisfazione. Il messaggio è chiaro, bisogna persistere. Bussate, e vi sarà aperto.

Dipartimento Diritto Privato Università Statale di Milano

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