Le banche d’investimento, che avevano riempito i propri bilanci di CDO apparentemente sicuri, si ritrovano all’improvviso in mano titoli di scarso o nullo valore. È la fase in cui l’intero sistema finanziario si rende conto della verità: non esiste una rete di sicurezza. I CDO, i pacchetti infarciti di mutui subprime, sono zavorra pura. I default a catena dei debitori trascinano giù il valore di questi strumenti.
Le banche commerciali, che avevano concesso i mutui senza badare ad alcun criterio prudente, restano senza scampo. Hanno venduto a caro prezzo ai giganti di Wall Street un castello di promesse non mantenute. Le agenzie di rating, intanto, perdono ogni credibilità: come hanno potuto valutare con la tripla A dei prodotti finanziari imbottiti di prestiti concessi anche a chi non aveva né reddito, né lavoro, né patrimonio?
Mentre ci si interroga su queste responsabilità, l’intero mercato va in fibrillazione. I prezzi delle case raggiungono un picco e poi crollano. Società specializzate nell’erogazione di mutui dichiarano fallimento una dopo l’altra. Le banche, che per anni hanno mostrato utili stellari, ora cercano disperatamente di trovare liquidità. Ma in un sistema così integrato, in cui i CDO e altri strumenti tossici hanno viaggiato in lungo e in largo, non c’è alcun rifugio sicuro. Il contagio è totale.
È il 15 settembre 2008: un momento che passerà alla storia. La Lehman Brothers, una banca d’investimento tra le più antiche e prestigiose degli Stati Uniti, dichiara fallimento. Ha in pancia miliardi di dollari in debiti, investimenti perduti, contratti insostenibili. È il più grande crack bancario della storia americana. Lo shock si ripercuote immediatamente sulle Borse di tutto il mondo, il Dow Jones crolla di 500 punti in un solo giorno, un tonfo simile a quello dell’11 settembre 2001. Ma questa volta non è un attacco terroristico, bensì l’autogol di un sistema che ha ignorato le proprie regole non scritte di prudenza.
Ora tutti sanno: i CDO sono intossicati, i Credit Default Swap che dovevano proteggere gli investimenti sono scommesse su un futuro che non si è realizzato. Anzi, molti dei CDS vengono ora riscossi da chi aveva previsto il disastro, costringendo le banche a risarcimenti enormi. Personaggi come Michael Burry incassano cifre da capogiro, ma la loro vittoria è amara: il mondo trema. Gli Stati Uniti, così centrali nell’economia globale, subiscono una perdita di credibilità, la fiducia scompare, la liquidità si prosciuga, le famiglie perdono la casa e il lavoro.
In meno di due anni, 8 milioni di americani restano senza impiego, la disoccupazione tocca il 10%, il livello più alto da trent’anni. Milioni di persone non hanno più un tetto, e i pignoramenti trasformano interi quartieri un tempo abitati da famiglie della classe media in distese di immobili vuoti e privi di valore.
Il governo degli Stati Uniti non può restare a guardare. Quando Lehman Brothers cade, la Fed dichiara di non voler salvare nessuno, per non creare un precedente pericoloso. Ma il giorno dopo si rimangia questa linea: AIG, la più grande compagnia d’assicurazioni americana, considerata “too big to fail”, troppo grande per essere lasciata affondare, viene salvata con 150 miliardi di dollari. La sua caduta avrebbe trascinato con sé cantieri, imprese, investimenti assicurati dalla sua immensa rete. È una mossa disperata, che non cancella il segnale inviato al mondo: l’intero edificio della finanza americana era fondato su presupposti falsi, sull’avidità di chi ha creduto di poter vendere debiti come fossero lingotti d’oro, e sull’incompetenza di chi non ha saputo leggere la fragilità delle proprie costruzioni.
La frana, ormai, è globale. Le banche europee hanno in pancia titoli tossici, le borse asiatiche tremano, il commercio internazionale crolla. Nel 2009 il PIL dell’Eurozona scende del 4,5%, la disoccupazione in Spagna tocca il 20%. Il commercio mondiale si contrae del 12%. Un vero arresto della globalizzazione, come se il motore principale dell’economia planetaria si fosse inceppato. Gli Stati intervengono, stampano moneta, acquistano i CDO per toglierli dai bilanci delle banche, provano ogni ricetta possibile per tamponare l’emorragia. Nascono nuovi organismi di controllo, come l’ESMA in Europa, per vigilare sulle agenzie di rating. Si introducono vincoli più rigidi per evitare che lo stesso errore si ripeta. Ma la cicatrice rimane aperta per anni.
L’Italia torna ai livelli economici pre-crisi solo nel 2024, a distanza di sedici anni dall’esplosione del disastro. Un’intera generazione, quella entrata nel mondo del lavoro tra il 2008 e il 2010, si porta addosso il trauma di una recessione che ha distrutto la fiducia nell’infallibilità del mercato. Lo storico del futuro e l’analista geopolitico potranno vedere nella crisi del 2008 la prova definitiva che un sistema basato sul debito illimitato e sull’espansione senza freni può crollare come un castello di carte. La domanda resta: abbiamo davvero imparato qualcosa, o è solo questione di tempo prima che l’ingordigia finanziaria trovi nuovi modi per mascherare il rischio e spingerci tutti, ancora una volta, sull’orlo dell’abisso?
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