“Dai servizi per le famiglie straniere agli affitti bassi: così in Europa attirano i talenti. E la ricchezza della ricerca italiana finisce altrove”

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Le regioni d’Italia non sono 20, ma 21. Perché quella che sta crescendo vertiginosamente si trova all’estero: è composta da giovani, imprenditori, studenti e ricercatori che hanno deciso di lasciare il proprio Paese in cerca di opportunità professionali e migliori prospettive di vita. “In molti, incluso buona parte della classe dirigente, o non vedono il problema o lo evitano” spiega Alessandro Foti, biologo italiano 37enne originario di Milazzo, in Sicilia, che oggi lavora in Germania, al Max Planck Institute, che si è formato in Italia e Germania e che ha pubblicato Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via (Dedalo edizioni), saggio dedicato proprio al tema della fuga di cervelli. I connazionali residenti fuori dall’Italia sono quasi sei milioni, il 10% della popolazione italiana. E in continua crescita.

L’Italia sta vivendo la quarta ondata migratoria della sua storia, una delle più grandi mai registrate da un grande Paese occidentale negli ultimi anni. I calcoli dell’Aire, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, dicono che in poco più di dieci anni, dal 2011 al 2022, si sono cancellati dall’anagrafe 1,3 milioni di italiani: un esodo che non si vedeva dall’inizio degli anni ’70. “Il problema è quando la mobilità da opportunità si trasforma in una forzatura a senso unico, senza alternative”, spiega Foti.

La novità che emerge dai dati è che la mobilità forzata oggi coinvolge molti giovani istruiti e con formazione specifica: la metà di chi parte (tra i 20-37 anni) è composta da laureati. Un dato sorprendente, visto che la quota di laureati in Italia tra i giovani si attesta solo intorno al 26%. Insomma, ciò significa che “siamo esportatori netti di laureati, nonostante il fatto che ne abbiamo davvero pochi”. Il numero di laureati che lasciano il Paese va aumentando ogni anno, e soprattutto non ne arrivano da fuori. “Più che una fuga, è uno squilibrio di cervelli”, sorride.

Il caso italiano – Il termine brain drain, fuga di cervelli, è stato usato per la prima volta dalla Royal Society nel 1963 per indicare la migrazione di cittadini inglesi altamente qualificati e di scienziati verso gli Usa, avviando un dibattito sul tema ed evidenziando i possibili pericoli per la società. Il caso italiano, in questo senso, è preoccupante perché sottostimato e sottovalutato. “Sottostimato perché le stime ufficiali non fotografano i numeri reali del fenomeno – risponde Foti –. Sottovalutato perché molti, – come detto – anche buona parte della classe dirigente, non vede il problema o lo evita”.

Gli studi di Foti al Max Planck Institute si concentrano sui neutrofili, cellule che modulano le risposte immunitarie del nostro corpo. Nel suo gruppo di ricerca i tedeschi sono solo quattro, la minoranza. Nonostante i luoghi comuni sul fascino del Belpaese, la realtà dice il contrario: i giovani italiani vanno in massa in Inghilterra, Germania e Francia, ma gli inglesi, i tedeschi e i francesi “non ci pensano neanche a venire da noi, se non per fare le vacanze e mangiare la pasta o il gelato” continua Foti. Quando questo processo, che si somma a quello delle migrazioni interne dal Sud verso il Nord, è fuori controllo, “danneggia la comunità di partenza, depauperando soprattutto le regioni italiane meno sviluppate dei suoi giovani più preparati e attivi”. Va registrata un’ulteriore novità rispetto alle passate ondate migratorie: per la prima volta le regioni italiane che vedono maggiore emigrazione sono quelle del Nord, con Lombardia e Veneto in testa, e poi a seguire Sicilia e Lazio. Una sorta di “emigrazione di rimbalzo”, con i giovani italiani che prima vengono attratti dalle grandi città del Nord Italia per poi espatriare.

Il nodo della ricerca: una ricchezza italiana che finisce altrove – Per Foti il termine cervelli in fuga è “riduttivo” e non fotografa accuratamente il problema generale. Tra il 2009 e il 2016 nelle università italiane il numero dei professori ordinari, associati e ricercatori è diminuito del 20%. I ricercatori italiani all’estero hanno una maggiore fiducia nelle prospettive di carriera e sperimentano progressioni più rapide rispetto ai colleghi in patria, alla luce di un continuo aumento dell’età media del personale universitario (52 anni) e dei professori ordinari in Italia (60 anni). In Germania l’età media dei professori è 52 anni, in Francia 54, nel Regno Unito 55. Nel 2023, ad esempio, due terzi dei ricercatori italiani che hanno vinto ERC consolidator grants (i finanziamenti dell’European Research Council, il più importante ente europeo) lavorava in istituzioni straniere e portava soldi nei già ricchi istituti esteri. L’Istat certifica che dalla crisi del 2008 al 2020 sono circa 15mila i ricercatori italiani che hanno lasciato definitivamente l’Italia. E tutto questo in un Paese che ha pochi ricercatori e con i livelli più bassi di occupati in ricerca, scienza e tecnologia in Europa.

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Mettere in fila i record negativi italiani diventa un esercizio amaro e doloroso. Negli ultimi 20 anni l’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non essere cresciuto, a non aver aumentato i salari e a vedere il potere d’acquisto in costante diminuzione, aumentando la spesa per pensioni e previdenza sociale. A questo si aggiunge un mercato del lavoro giovanile tra i più fragili a livello europeo, con un livello di occupazione tra le giovani generazioni molto basso. Senza dimenticare la disparità di genere a livello salariale, con i tassi tra i più alti d’Europa (16,5 % nel privato e 4,1% nel pubblico). “Negli altri Paesi europei avere una laurea ti dà un vero vantaggio occupazionale: formarsi, da noi, fornisce meno vantaggi che in altri Paesi”. Attenzione, però. È un falso mito quello dell’italiano che va all’estero e fa faville: in alcuni casi “non fa un bel niente, e deve tornarsene indietro o farsi mandare un supporto finanziario dalla famiglia”. Tanti italiani, continua Foti, “vivono comunque una situazione professionale e personale di precarietà anche all’estero, dovuta a società sempre più fragili e mobili: un buono stipendio a Parigi, Londra o nella maggior parte delle capitali europee serve a compensare le esorbitanti spese di affitto e i costi della vita”. E negli Usa questa precarietà è “ancora più accentuata”.

Cosa fanno gli altri Paesi per trattenere giovani e talenti – Gli altri grandi Paesi europei di solito non bloccano direttamente la fuga dei cervelli, ma hanno semplicemente un mercato del lavoro e un sistema sociale che funzionano meglio del nostro. “In Europa i giovani vanno via ma poi ritornano, da noi no. Questo succede perché i Paesi europei dove vanno i nostri expat hanno migliori possibilità lavorative, più servizi e assistenza sociale, retribuzioni dignitose, sistemi di selezione e avanzamento di carriera generalmente più meritocratici. Non è poco”. Un esempio? La Germania dopo la crisi del 2008 ha deciso di investire in formazione, ricerca e sviluppo (a differenza di quanto avvenuto in Italia e Francia), arrivando a spendere circa 106 miliardi di euro solo nel 2022 tra pubblico e privato (il 3,16% del Pil), e diventando il Paese in Europa leader in molti settori ad alta tecnologia e valore aggiunto.

I progetti europei, inoltre, sono il frutto di una cooperazione tra enti locali, Stati e UE e puntano a investimenti sia in campo pubblico che privato. È il caso del Belgio, dove nella regione della Vallonia-Bruxelles sono stati attivati programmi quinquennali di finanziamento per promuovere l’arrivo di ricercatori altamente qualificati con progetti innovativi, registrando miglioramenti della ricerca in vari campi: dall’aeronautica all’ingegneria, dai trasporti alle scienze della vita.

In Danimarca, nell’area della Grande Copenaghen (che comprende 79 Comuni e quasi 4 milioni di abitanti) è stata lanciata la Strategia per i talenti per attirare ricercatori internazionali grazie a una piattaforma digitale che fornisce aggiornamenti quotidiani sulle opportunità di carriera, un canale digitale rivolto ai cittadini interessati a stabilirsi nella regione, ma anche servizi specifici agli stranieri e alle loro famiglie, un servizio di alloggi gestito dai Comuni per aiutare a trovare soluzioni abitative, pacchetti di informazioni e guide alla vita cittadina. I risultati? In tre anni si sono creati oltre 5mila posti di lavoro, più di 2.700 nuovi impieghi indiretti, coinvolgendo 139 imprese e attirando 733 talenti internazionali che si sono stabiliti nel Paese.

Nella seconda città più grande della Grecia, Salonicco, dove la disoccupazione giovanile era al 44% al culmine della crisi del 2008, è stato creato da alcuni cittadini, in collaborazione con il Comune, un’organizzazione no profit dal titolo Creativity Platform, che ha messo in contatto persone in cerca di lavoro e piccole imprese alla ricerca di competenze e industrie, specie nel settore creativo: centinaia di professionisti e creativi hanno sviluppato collaborazioni e nuove iniziative, con effetti anche a lungo termine.

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A livello europeo va menzionato anche la Talent House di San Sebastian, in Spagna, che dal 2011, su finanziamento del Comune, mira ad attrarre e accogliere talenti internazionali con un edificio dove si possono affittare 80 appartamenti a prezzi accessibili, che offre servizi di accoglienza e orientamento nella ricerca del lavoro e che ha permesso a oltre 1.300 ricercatori di insediare la propria nuova attività nella città dei Paesi Baschi.

E fuori dall’Europa cosa succede? – Storicamente molti Paesi asiatici hanno sofferto il fenomeno della fuga dei cervelli. L’esempio di Taiwan è lampante, dove per contrastare la diaspora di decine di migliaia di lavoratori all’estero il governo, fin dagli anni ‘50, ha deciso di investire in modo massiccio nell’istruzione di base. Con lavori sicuri e salari migliori i cittadini hanno avuto pochi incentivi a emigrare. A questo si è unito il riconoscimento del governo del potenziale dei migranti come risorsa, spingendo le aziende locali a offrire contratti vantaggiosi ai taiwanesi che vivevano all’estero: è il caso degli “astronauti”, i lavoratori che facevano da spola tra l’Asia e la Silicon Valley, con risultati sorprendenti. A inizio anni ’90 il 20% dei dirigenti delle grandi aziende taiwanesi era composto da ex migranti e nel 2000 metà delle aziende del parco industriale e scientifico di Hsinchu erano state fondate da taiwanesi di ritorno, oltre 100mila lavoratori, generando vendite per 28 miliardi di dollari.

L’India, considerato il Paese con il maggior numero di cittadini residenti all’estero (circa 17 milioni), ha deciso di aprire le frontiere agli investitori stranieri, riservando grandi aree e parchi industriali e tecnologici, tariffe ridotte per i terreni, sconti sull’energia e sviluppando così la “Silicon Valley indiana”, che ha portato posti di lavoro nel campo della tecnologia e favorendo lo sviluppo di una cultura dell’imprenditorialità tra i laureati indiani.

In ultimo, gli Stati Uniti, che ospitano il più alto numero di cittadini residenti nati in un altro Paese (oltre 50 milioni), con incalcolabili vantaggi grazie all’aver creato condizioni accoglienti per chiunque avesse nuove idee e voglia di fare. Dal dopoguerra in poi i più importanti scienziati, accademici e creativi da tutto il mondo hanno trovato base in America del nord. Ma anche il Paese più attrattivo del mondo deve fare i conti con la fuga dei cervelli. Come si legge in un report del 2017 del Congresso americano, oggi l’arrivo di talenti si concentra solo in un gruppo di Stati lungo la costa occidentale, mentre la maggior parte degli Stati della Rust Belt (Pennsylvania, Virginia, Ohio, Indiana, Michigan, Iowa, Wisconsin, Minnesota) ha a che fare con la partenza dei propri cittadini verso nuove opportunità, interne o all’estero. Il fatto che gli Usa prendano sul serio questo problema “dovrebbe seriamente preoccupare gli altri Paesi”, continua Foti.

Il tentativo italiano – Nel corso degli ultimi 25 anni il Parlamento italiano e alcuni enti locali hanno legiferato con l’intento di limitare l’emorragia migratoria dei giovani italiani e favorire l’arrivo di stranieri con specifica formazione. Tuttavia, i principali interventi legislativi sul tema si sono limitati a detrazioni fiscali. Ci ha provato nel 2001 il ministro dell’Università Ortensio Zecchino, con il programma “Rientro dei cervelli”, a cui ha aderito solo l’1% dei ricercatori italiani all’estero. Nel 2010 la ministra per l’Università e la Ricerca Mariastella Gelmini ha promosso la legge Controesodo”, ancora in vigore, con agevolazioni fiscali di cui hanno usufruito circa 3.900 persone, cifra molto inferiore alle aspettative.

Non è andata meglio alla legge “Impatriati” del governo Renzi e alle agevolazioni promesse del secondo governo Conte. Anzi. Uno studio del 2019 del gruppo Controesodo mostra che la metà dei 14mila rientrati negli anni 2012-2017 è poi ritornata all’estero. Le Regioni, muovendosi autonomamente, hanno tentato di guardare al problema con un approccio lungimirante, ma i programmi per trattenere i giovani si sono dimostrati sporadici e territoriali. La Regione Lombardia, nel 2019, ha ideato una piattaforma che mette in contatto i giovani espatriati con le imprese italiane. Al sud, l’Harmonic Innovation Hub di Catanzaro si candida ad essere uno degli spazi di innovazione e crescita sostenibile più importanti d’Italia. La Regione Umbria ha messo in campo una serie di iniziative per gli imprenditori italiani residenti all’estero con lo scopo di creare startup innovative sul territorio (ne sono nate 16). I giovani italiani che lasciano il nostro Paese, però, non lo fanno solo per una questione fiscale o economica. “Vanno considerati molti altri aspetti: selezioni e avanzamenti di carriera più meritocratiche, maggiori servizi, congedi parentali, burocrazia più efficiente”, si legge nel saggio.

Soluzioni – L’obiettivo di un grande Paese non dovrebbe essere il blocco della mobilità, anzi. Quello dell’emigrazione giovanile non è un fenomeno neutro ma ha impatti negativi, specie per le regioni di partenza poiché genera carenza di capitale umano, riduce la crescita economica, abbassa la produttività e la capacità di innovazione. Il Centro Studi della Confcommercio considera la fuga dei cervelli come un danno economico per l’Italia di circa 14 miliardi di euro l’anno, l’1% del Pil. “La soluzione non è così chiara come ci fanno credere molti decisori politici sotto campagna elettorale” spiega Foti, ma cambiare le politiche giovanili è indispensabile, sia per i giovani che sono all’estero, sia per quelli che risiedono in Italia, che si confrontano con un mercato del lavoro penalizzato dalla bassa innovazione e scarsa cooperazione con il mondo delle università. Per non parlare di giovani spinti a “fare stage e tirocini mal pagati, a volte gratis, o praticantati al limite dello sfruttamento che andrebbero radicalmente riformati”. Ciò si somma ad altri temi urgenti come stipendi dignitosi, pari opportunità, congedo parentale, contrasto a corruzione e carriere interne. Va presa la questione sul serio, e subito, perché è indice di problemi molto profondi. “La ricerca di base è una cosa che non vedi, fino a quando non ne hai bisogno. Oltre questo, alla classe politica italiana ho poco da comunicare – conclude Foti –. Mi interessano di più le giovani generazioni italiane, che sono senza dubbio il futuro di questo, a volte confuso, Paese”.



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