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“È … il momento in cui va trovato il coraggio per maggiori investimenti produttivi. Per esempio, perché non si pensa a creare una holding finanziaria/industriale con investimenti pubblici e privati tendente a dare un futuro di sviluppo alle molte Pmi che sono campioni nei loro rami di attività, ma, avendo una struttura prevalentemente familiare, potrebbero avere difficoltà nel continuare particolarmente perché la generazione successiva a quella che sta gestendo non si sente interessata o preparata a mantenere viva l’operatività? … Ecco allora che per non disperdere questa attività industriale, o svenderla magari a stranieri, diviene importate l’intervento della sopracitata holding”.



Come sempre gli articoli di Alfredo Mariotti (e la citazione è dal suo ultimo apparso su queste pagine) sono ricchi di idee e di suggerimenti, che derivano da una vita dedicata allo studio e alla gestione delle industrie piccole, medie e grandi della nostra manifattura e in primo luogo di quel plesso decisivo di essa che sono le imprese fabbricanti macchine utensili, l’architrave decisiva della struttura dell’industria del passato, del presente e del futuro: ogni innovazione in questo campo non potrà che aumentare gli alberi (le imprese) delle foreste (le industrie), che sono alla base della creazione del plusvalore capitalistico e con esso della ricchezza materiale e intellettuale della società tutta.

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In tempi di crisi come l’attuale, indicazioni come quelle di Mariotti sono più che preziose e risuonano – con le indicazioni dei presidenti di Confindustria, di Confartigianato e di tutte le associazioni che rappresentano il mondo delle imprese manifatturiere – come drammatiche manifestazioni della necessità di un pensiero in grado di fornire le leve per il risorgimento del nostro patrimonio industriale.

Per operare questa azione, diretta a porre le basi di una nuova politica industriale in tempi di inflazione da carenza di offerta, da crisi pandemiche, da guerre inter-imperialistiche e nazionalistiche, da regolazioni dall’alto non coordinate e cogestite con le popolazioni organizzative – le imprese, appunto, di qualsivoglia dimensione esse siano – attive sui mercati, com’è tipico (ahimè) delle regole della governance della burocrazia celeste dell’Ue e delle Banche centrali che impongono politiche monetariste, invece di politiche incentivanti la domanda e la produzione in tempi di interruzioni delle offerte di beni essenziali alla continuità della produzione, occorre invertire rapidamente la rotta. Tutte le forze politiche devono comprenderlo.



Essenziale è comprendere la distinzione di Alfred Marshall – ancora maestro indiscusso, con Joseph Schumpeter, dell’economia industriale – tra industria e impresa.

Tutte le imprese agiscono nel mondo reale: circondate dalla foresta. E la foresta altro non è che l’insieme, si badi bene, degli alberi che la compongono. Codesta foresta può essere ed è formata da alberi piccoli, ossia minuti e modesti in quanto ad altezza e in quanto ad ampiezza delle chiome, così come la foresta è composta anche da cespugli e germogli, innumerevoli creature floreali e da infiniti tipi e qualità di legnami che formano i tronchi degli alberi che creano il tessuto connettivo della foresta medesima. Non esiste foresta ricolma di alberi piccoli e di meravigliosi e proliferanti cespugli se in essa non troneggiano anche grandi alberi vetusti e frondeggianti, con chiome superbe: danno ombra e riparano dai venti, forniscono vigore alla più piccola pianta. Consentono a essa di crescere. Di forza propria, certo, ma grazie al suolo percorso dalle radici degli alberi giganteschi che forniscono le linfe vitali alla foresta tutta che vive di una biodiversità meravigliosa e lussureggiante.

Così è nella vita reale e nella storia perenne dell’industria, in tutte le sue transizioni tecnologiche e direzionali. Così è stato e così sempre sarà in futuro. Per questo allorché i grandi alberi muoiono, non per rinsecchimento proprio, ma per improvvidi guardiani o predatori della foresta… cadono e tutto travolgono. Coloro che vogliono allora essere i conservatori e gli innovatori insieme della foresta, devono consentire che i grandi alberi si ricreino rapidamente, per impedire che tutta la foresta muoia o si trasformi in una serie di aiuole bellissime e radiose, ma che non possono più da sole diffondere e creare l’insieme di beni che solo la grande multiforme foresta donava all’umanità.

Si è sempre fatto in tal modo nella storia industriale moderna. Il capitale finanziario è sempre stato indirizzato, nella storia del capitalismo mondiale, anche a svolgere questo compito e non solo quello che oggi pare predominante: di riproduttore della sola moneta-simbolo – artefice della finanza per sé sola e per l’arricchimento dell’1% della popolazione mondiale, così come non era un tempo.

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L’industrializzazione ottocentesca e della prima metà del Novecento è avvenuta grazie al ruolo formidabile svolto dalle banche miste o banche universali, private o pubbliche ch’esse fossero, e che non hanno solo fornito capitali alle industrie già esistenti, ma hanno spesso creato tali industrie. Dalla Germania guglielmina a quella del secondo Novecento sino alla sua unificazione post-sovietica, sotto la sfera mista del pubblico e del privato, la Germania è divenuta ciò che era sino alla crisi delle sanzioni nord-americane per la guerra russa all’Ucraina. Senza dimenticare il caso da manuale degli Usa, che risorsero dalla crisi del 1929 grazie al New Deal, che fornì l’esempio mondiale di un ruolo dello Stato che svolse un prodigioso ruolo ricostruttore e che in Italia si vestì delle livree dell’Imi e dell’Iri.

Il premio Nobel Olinor Olstrom con la sua teoria dei commons goods ha posto le basi di una nuova forma possibile di impresa fondata sui beni pubblici, grazie a fondi di dotazione che superano la distinzione di pubblico e privato per consentire la creazione di nuove forme proprietarie che consentono – purché lo si voglia – la creazione di grandi imprese che, con il loro operare, sorreggono industrialmente la società e le imprese piccole e piccolissime che più pesantemente risentono delle crisi.

La Caritas in Veritate del grande papa Benedetto XVI ha posto questa forma di impresa e di proprietà al centro di una riflessione (che è mancata ahimè proprio tra i cattolici) di una nuova politica economica su scala mondiale.

Insomma, è possibile seguire l’esempio di Mariotti e riflettere sulla necessità di perseguire una nuova politica industriale, che sia polisettoriale e pluriforme, pluridimensionale, universalistica e che consenta all’Italia di superare il difficile momento in cui la sua industria di ogni filiera è immersa, superando sterili incomprensioni e differenze politiche.

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