Liberainformazione Riforme e assetto costituzionale della magistratura

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Pubblichiamo l’intervento del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati in occasione dell’Assemblea straordinaria ANM tenutasi a Roma, domenica 15 dicembre 2024.

Care colleghe e cari colleghi,

l’essere qui, riuniti nella quarta assemblea straordinaria indetta in poco più di due anni e mezzo, è di per sé indice di quanto grande sia la preoccupazione della magistratura per il contesto in cui si trova ad operare e in cui progrediscono, nell’iter parlamentare, i disegni di revisione costituzionale.

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Una preoccupazione che ci accomuna tutti, che tocca la magistratura in tutte le sue fasce generazionali.

1. Sono molti, e lo dico con grande soddisfazione, i neo-magistrati che si sono iscritti alla nostra associazione a distanza soltanto di qualche settimana dal giorno in cui hanno prestato il giuramento di assunzione.

Trovo in questa scelta dei nuovi colleghi, a ciascuno dei quali rivolgo un caloroso benvenuto, una indicazione preziosa.

Non è un caso che protagonisti di questa confortante e inaspettata, almeno per i tempi, decisione siano i più giovani, coloro che non portano il peso del disincanto e delle frustrazioni indotte dalle continue spinte di infelici riforme di ordinamento giudiziario ad una insulsa burocratizzazione della funzione.

Le difficoltà e il disagio che si avvertono quotidianamente nei nostri luoghi di lavoro sono alcune delle ragioni della disaffezione alla vita associativa, che pure storicamente ha funzionato da antidoto ai guasti di una visione impiegatizia della professione.

Di quella storia e di quel passato dobbiamo fare risorsa preziosa e in questa direzione l’immissione di nuove energie è occasione da non perdere.

Traggo allora, dal loro tempestivo desiderio di partecipazione al dibattito associativo, una prima lezione.

La magistratura è pesantemente attaccata sotto il fuoco di parte, di buona parte, della stampa e dei media, che la feriscono con ogni genere di accuse, per poi addebitarle di aver perso la fiducia dei cittadini, fiducia esposta in larga misura all’azione corrosiva delle loro intemerate sulla politicizzazione, sulla ostilità al Governo, sul collateralismo partitico, sulla pratica giudiziaria costellata di errori.

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Tutto ciò è reso possibile dall’insofferenza che settori importanti della politica ostentano nei confronti della giurisdizione.

Dai test psico-attitudinali al serissimo, e da noi non sottovalutato, capitolo dell’errore giudiziario, nulla è affidato alla riflessione e al costruttivo approfondimento e ogni tema è usato per l’incessante opera di sfaldamento della credibilità dell’ordine giudiziario.

Di fronte a questo progressivo deterioramento del quadro, la magistratura potrà continuare ad aver fiducia e coltivare speranza soltanto se saprà mantenere, anzi rafforzare, la presenza e la vitalità dell’associazionismo.

La dimensione associativa, del dialogo e del confronto che favoriscono una sempre maggiore consapevolezza del ruolo e della sua fisionomia valoriale, è il luogo in cui ricercare le motivazioni per non assuefarsi alla tristezza del tempo presente, per non adattarsi ai cambiamenti prima che accadano, e che si muovono vero l’arretramento delle garanzie, dei diritti e delle libertà.

Può in tal modo concretizzarsi la speranza di far giungere nei luoghi della decisione e nello spazio pubblico, in cui quelle decisioni misurano il loro grado di accettazione sociale, le ragioni che ci inducono a guardare alla incipiente riforma coma ad uno strappo e non ad una nuova trama del tessuto costituzionale.

2. Sono alla fine del mio mandato come presidente, quattro anni e più di impegno appassionante e gratificante, reso possibile dalla fiducia che mi avete accordato e di cui vi sono grato.

Durante questi anni, costellati da non pochi momenti difficili, mi sono confermato nella convinzione, la stessa con cui mi ero accostato all’incarico, e che ora vi consegno, con umiltà non di maniera.

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Confido che possa essere accolta e possa anzi costituire la premessa del lavoro che da qui a breve i nuovi organi associativi affronteranno, raccogliendo il testimone dal Comitato direttivo in naturale scadenza.

L’Associazione deve praticare una unità reale, per essere all’altezza di tempi in cui si rischia di dare avvio alla stagione del declino.

Condivido solo per questa parte il giudizio del Ministro della giustizia sulla riforma costituzionale da lui definita epocale: si chiude, appunto, un’epoca e se ne apre un’altra, ma in senso decisamente regressivo.

Solo così può autorevolmente e credibilmente replicare alla massiccia campagna di sfiancamento della cornice costituzionale, condotta ora sbandierando, con una bizzarra inversione concettuale, la necessità dell’allineamento della Costituzione alla legge, al codice di rito penale; ora, addirittura, tacciando l’attuale assetto ordinamentale di produrre un deficit di terzietà del giudice.

Non v’è alternativa all’essere uniti per far valere, con rispetto profondo per il Parlamento che dovrà decidere ma con altrettanta profonda convinzione della bontà dei nostri argomenti, una contrarietà alla riforma che non ha nulla di corporativo, che non esprime sentimenti di gretta conservazione o autoconservazione, che non mira a mantener chissà quali privilegi.

3. Lo abbiamo detto più le sedi possibili, e continueremo a farlo, rafforzati e confortati, da ultimo, dalle riflessioni di un illustre studioso del processo penale, il prof. Paolo Ferrua, pubblicate qualche giorno fa sulla stampa.

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Il processo accusatorio, che fa parte del nostro sistema da oltre trent’anni, non implica e non esige una separazione delle magistrature, ma chiede una separazione delle funzioni, aggiungo io ora … anche meno rigida ed esasperata di quella che ci ha consegnato la riforma Cartabia.

È dunque un fiacco argomento retorico, speso più e più volte anche dal Ministro della giustizia, quello per il quale la riforma s’ha da fare per adattare la Costituzione al codice di rito accusatorio.

Né è più saldo l’altro pilastro della costruzione eretta a giustificazione della riforma, quello della mancanza di effettiva terzietà del giudice.

Nessuno tra i sostenitori della riforma spiega:

– perché, in questi oltre vent’anni dalla novella dell’art. 111 Cost. con il riferimento al giudice, oltre che imparziale, anche terzo, non sia mai stata denunciata alla Corte costituzionale l’illegittimità dell’assetto ordinamentale e perché la Corte, che in tante occasioni ha utilizzato nei suoi scrutini il parametro della terzietà, non ha mai indicato al legislatore la necessità di una separazione delle magistrature;

– perché l’equidistanza dalle parti potrà dirsi realizzata se il giudice avrà di fronte un magistrato, sì di una magistratura separata ma dello stesso suo ordine giudiziario (perché la riforma non tocca l’unicità dell’ordine), e che in ogni caso sarà sempre a lui più vicino, siccome magistrato e magistrato dello stesso ordine, di quanto potrà mai essere un avvocato del libero foro;

E nessuno, soprattutto, spiega per quale ragione la separazione delle magistrature, pure ritenuta ineludibile, si dissolverà nel nuovo luogo della responsabilità disciplinare, l’Alta Corte di giustizia, in cui la prevalenza numerica della componente togata sulla laica si reggerà su una ritrovata commistione delle due magistrature.

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Cos’altro occorre per accorgersi, proprio attraverso le incoerenze e le lacune di un testo affrettato, che il fine della riforma non può che essere colto tra le sue righe?

Il fine, al di là di quanto si dichiara, è la frammentazione come strategia di indebolimento sia del Csm che della magistratura e della sua esperienza associativa; non certo il rafforzamento del giudice, secondo le formule enfatiche del “giudice gigante”, del “potenziare notevolissimamente” il suo ruolo e la sua figura, con cui il rappresentante del Governo ha magnificato qualche giorno fa la riforma dinnanzi all’assemblea della Camera dei deputati.

Se l’obiettivo fosse realmente il rafforzamento della figura e del ruolo del giudice, allora mi permetterei di suggerire alla politica altra e più agevole strada, quella del rispetto della funzione pur quando i giudici adottano provvedimenti sgraditi.

Senza divenir “giganti”, non è questo che si vuole, i giudici potrebbero già oggi rafforzarsi di una maggiore considerazione per il loro lavoro e di un ben diverso atteggiamento di autorevoli esponenti della politica, non più intriso di diffidenza e non più sostenuto dal pregiudizio odioso che i giudici agiscano per faziosità e partigianeria partitica.

Quando poi il programma separatista avrà ridimensionato il giudiziario, in linea con quanto vagheggiato nelle relazioni illustrative delle proposte di legge di iniziativa parlamentare, allora si porrà prepotentemente il tema del pubblico ministero che, certo, non potrà restare isolato e rafforzato in una autoreferenzialità fuori misura.

Io do credito, non foss’altro che per rispetto della persona, alla buona fede del Ministro che dice che non avverrà mai la sottoposizione del pubblico ministero alla politica.

Ma, come dice il prof. Ferrua, il cui pensiero in gran parte corre lungo gli stessi binari che con ostinazione percorriamo da tempo inascoltati, il Ministro non ha il potere di ipotecare il futuro e, aggiungo ora come considerazione generale, il futuro non assume obblighi di lealtà se alla buona fede non si accompagnano, nel prepararlo, avvedutezza e prudenza.

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Come accade in molti ordinamenti, a cui del resto guardano i sostenitori della riforma, un pubblico ministero separato, isolato dalla giurisdizione, è assai vicino, collegato all’Esecutivo.

Le nostre paure non sono fantasie, sono previsioni del tutto giustificate dalla constatazione della realtà.

La direzione intrapresa è del resto coerente con l’idea, proclamata molte volte, che ogni potere debba spettare a chi è eletto dal popolo.

Se la premessa è che l’autentica espressione della sovranità spetta all’eletto, non può stupire che si lavori per ricondurre l’azione penale nei programmi della politica; e che appaia come una intollerabile deviazione da un modello di unificazione della sovranità che dei vincitori di concorso, non legittimati elettoralmente, possano gestire l’azione penale privi di responsabilità politica.

4. Il compito che ci spetta è arduo e va adempiuto sapendo guardare, al contempo, alle involuzioni normative, il che già è cosa di assoluto rilievo, e al processo culturale di indebolimento, ed è qui il dato di maggiore preoccupazione, del modello di giurisdizione elaborato nei lunghi anni del disgelo costituzionale e che successivamente, spesso minacciato, ha comunque resistito.

Al di là di qualche rassicurazione di facciata, si registra quanto sia meno avvertita, nei concreti comportamenti, la centralità degli organi di garanzia.

Il racconto dominante ruota intorno al preteso bisogno di accrescere il ruolo degli organi di governo e bolla come anticaglia di un passato lontano e pretestuoso argomento dialettico il richiamo a non sottovalutare l’esigenza di porre i primi al riparo dal pericolo, quello sì reale e storicamente sperimentato, di una compressione dei loro vitali spazi di indipendenza e di autonomia.

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Proprio in questo tempo, attraversato da tendenze che inquietano, la riaffermazione della omogeneità culturale della magistratura tutta, figlia, pur con i suoi difetti, i suoi errori, di una promessa costituzionale a cui resta convintamente fedele, rincuora e fa sperare che il declino non sia destino ineluttabile.

E non v’è sforzo comunicativo più efficace, argomento più incisivo, in tutto ciò, del far testimonianza di come la diversità di mestieri, e sono tanti nel nostro mondo, la diversità di funzioni, l’assunzione di incarichi direttivi e semidirettivi, la diversità di collocazione nei plurimi gradi del giudizio non agiscano nella realtà degli uffici e delle aule come germe della frantumazione di un unitario modello di magistrato.

Occorre saper dimostrare che la strada imboccata non condurrà a nulla di buono, che su quella strada si rischia di lasciare insoddisfatte le istanze di giustizia anche e soprattutto di chi non ha voce o non ha pari forza di altri nell’esprimerla.

In attuazione del deliberato assembleare del novembre dello scorso anno abbiamo rafforzato i mezzi della nostra comunicazione, ci siamo dotati di un attrezzato ufficio stampa e abbiamo cercato di utilizzare ogni occasione per rappresentare e illustrare il punto di vista della magistratura.

Oggi dovremo valutare se e come approfondire l’impegno su questo versante, sforzandoci di dare all’esterno una immagine corretta e fedele al nostro sentire, di una magistratura che non si arrocca nella protesta ma che si mette a disposizione, con infaticabile adesione al modello di democrazia partecipata, per arricchire di contenuti il confronto e per agevolare, quanto meno, le prossime probabili scelte referendarie.

5. Nel dibattito pubblico prevale sempre più di frequente la tendenza a svilire come populista ogni tentativo di imporre all’attenzione collettiva l’istanza di uguaglianza.

Si fa spazio in tal modo un garantismo penale a connotazione settoriale, che sta rilegittimando, nel silenzio di molti, la moltiplicazione dell’impiego del cd. doppio binario, e che rischia di far recedere la dimensione del fatto a beneficio del profilo dell’autore.

Nell’osservare la traiettoria delle riforme varate e dei progetti in divenire, si coglie il senso anche delle decisioni non prese.

Mi riferisco specificamente all’assenza di interventi adeguati ad affrontare il grave tema del disagio carcerario, nonostante il tragico numero di suicidi in carcere, 82-83, da inizio anno, a tacere delle pessime condizioni in cui, in relazione di ovvia specularità, opera il personale di polizia penitenziaria.

Io ho apprezzato molto la generosità con cui l’Avvocatura penale si è spesa per sollecitare dalla politica risposte assai più efficaci di quelle infine prodotte.

Lo abbiamo fatto anche noi, anche noi abbiamo chiesto al Ministro misure strutturali e misure urgenti per affrontare il grande problema carcerario.

Lo abbiamo fatto forse con tono minore ma non certo per minore sensibilità quanto per maggiore consapevolezza.

A differenza dell’Unione delle Camere penali cogliamo su quel versante i segni di un complessivo modo di intendere la giustizia, a cominciare proprio dal disegno di riforma costituzionale.

Questa consapevolezza ci porta a credere che le pur doverose pressioni affinché il carcere sia restituito a condizioni di accettabile vivibilità possano poco se non si misurano, se non hanno disponibilità a misurarsi con il quadro di insieme, per cogliere le assonanze ideali tra le scelte di politica penitenziaria, gli attacchi sul fronte della giurisprudenza in materia di immigrazione, gli interventi di protezione (depenalizzazione selettiva e scudi erariali) dei detentori di poteri pubblici e, soprattutto, la riforma costituzionale che, se ben studiata al riparo dai bias cognitivi che intrappolano chi è guidato dalle sue aspettative storico-identitarie, rivela, per quanto ho già detto, un’idea di giustizia e di giurisdizione in cui le istanze liberali non avranno la meglio.

6. Gli argomenti di critica che abbiamo finora speso, anzitutto in occasione delle audizioni informali in Parlamento, a proposito di molte iniziative di riforma della legislazione penale e ovviamente della riforma costituzionale hanno un comune denominatore nell’esigenza di riaffermazione piena del principio di uguaglianza e nell’accentuazione della dimensione di “servizio” della giustizia e della sua amministrazione.

Quando il criterio di uguaglianza costituzionalmente declinato non governa le dinamiche sociali, il conflitto impedisce la composizione ordinata degli interessi e non deve stupire, per gettare lo sguardo ad un’altra tragica emergenza, che il profitto metta in ombra il valore del lavoro, innescando la spirale dell’aumento incontrollato di infortuni, mortali e non, a cui ci si sta drammaticamente abituando.

Le morti in carcere e le morti sui luoghi di lavoro dovrebbero scandire l’urgenza di riforme e impegni di risorse, su quel piano dovrebbero essere incalzati tutti gli operatori di giustizia.

Su quel piano sì che risalterebbero le carenze del sistema giudiziario come servizio e sarebbe cogente e ineludibile uno sforzo collettivo, dei magistrati come e al pari degli altri, per restituire centralità, nella gestione dei fascicoli e nel computo dei numeri di statistiche e obiettivi, a costituzione invariata e integralmente praticata, alla persona e al senso di umanità che deve fare della giustizia, con una quotidiana tensione ideale da coltivare in ogni modo, il volto anche severo ma rassicurante di una comunità che non discrimina e non abbandona.

Buona assemblea!

Fonte: Giustizia Insieme

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I magistrati italiani – Assemblea Straordinaria ANM





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