Ludovico Einaudi: “I miei ricordi di Torino e del Piemonte”
Ludovico Einaudi, celebre pianista e compositore, è il quarto artista italiano più ascoltato al mondo su Spotify, grazie a una musica che fonde il linguaggio del pop con la profondità della classica.
Tuttavia, il suo successo è nato in un contesto familiare carico di aspettative e pressioni culturali, con un cognome importante: suo nonno Luigi fu presidente della Repubblica e suo padre Giulio fondò un’importante casa editrice.
Einaudi ricorda il nonno in modo vago, associandolo a momenti d’infanzia come passeggiate nella vigna. Di sua nonna Ida, invece, conserva l’immagine di una donna elegante e solare, capace di contrastare il carattere più riservato del resto della famiglia.
Il rapporto con il padre Giulio fu complesso: lo descrive come un uomo cinico e ironico, spesso duro e sordo alla musica. Racconta un episodio emblematico, quando scoprì che il padre possedeva un album di John Cage contenente il celebre brano fatto di silenzio, “4’33”. Nonostante il rapporto conflittuale, Giulio gli insegnò l’indipendenza, costringendolo a mantenersi con un modesto stipendio durante gli studi e a cavarsela da solo una volta terminati.
L’amore per la musica nacque grazie alla madre, pianista amatoriale, che trasmetteva emozioni profonde attraverso il suo modo di suonare. In un periodo di crisi familiare, quando i genitori si separarono, la musica della madre rappresentò per Ludovico un rifugio emotivo. Le sue prime esperienze musicali furono con il rock e i Beatles, ma la formazione classica lo portò a studiare con Luciano Berio, un maestro aperto e innovativo che lo coinvolse persino alla Scala.
Ma Einaudi scelse di allontanarsi dal mondo accademico della musica d’avanguardia, trovandolo troppo rigido e lontano dalla sua sensibilità. Questa decisione gli costò critiche ma gli permise di sviluppare un linguaggio musicale personale, capace di comunicare con un pubblico vasto.
Su Torino e Calvino, Einaudi risponde così al Corriere della Sera:
«Abitava nel nostro stesso palazzo a Torino, ne ho un ricordo fantastico. Mai trombone, timido, soffriva nel vedere le candele che si consumavano, da buon ligure attento al risparmio lo sottolineava sempre con il sorriso, con quel suo sguardo da gattone. Aveva un’attenzione particolare per me: una sera vide alcune foto che avevo fatto e le mise sul pavimento per premiare la migliore. Fu una cura che mi diede fiducia, quella che da mio padre non arrivava».
Sul suo approccio alla musica: «Mia mamma suonava il pianoforte in modo amatoriale, aveva un repertorio piuttosto limitato di classici, da Chopin e Schumann, ma mi faceva ascoltare anche i Rolling Stones. Penso che per lei la musica sia sempre stata un modo per colmare il vuoto della lontananza del padre — Wando Aldrovandi, direttore d’orchestra e compositore — che ha vissuto ed è morto in Australia. La musica di mia mamma era piena di un sentimento profondo di mancanza, sentivo un’emozione forte nelle melodie che suonava ed è un sentimento che mi ha trasmesso. Quando la nostra famiglia stava andando a rotoli e i miei si sono allontanati, percepivo che in casa non c’era più il calore di prima, la sua musica però era come un caminetto acceso che nutriva le mie emozioni. Il calore che mancava dentro la mia famiglia mi arriva attraverso il pianoforte di mia madre. Ho cominciato con il rock, sono cresciuto negli anni in cui la chitarra era lo strumento principe, a 8 anni suonavo i Beatles».
Poi l’incontro con Berio
«Era propositivo, pratico, andava subito al sodo. Amavo la sua apertura rispetto agli altri maestri dell’avanguardia, aveva conosciuto Paul McCartney, gli piaceva il jazz. Ero l’assistente principale di Berio al Scala, un giorno mi disse: se mi ammalo mi sostituisci a dirigere l’orchestra. Avevo 23 anni e la sera stessa mi è venuto un febbrone pazzesco».
Poi la rottura
«Non volevo seguire un mondo dell’avanguardia che non corrispondeva alle mie necessità espressive: non facevo musica per essere rispettato dentro una società accademica. Ho abbracciato una strada che mi ha chiuso quelle porte, nel giro di un anno il mondo della classica contemporanea ha cominciato a storcere il naso. Con Berio stesso — pur in un rapporto formale buono — non c’era più la sintonia di prima».
L’aldilà:
«Penso ci sia un’energia che non scompare del tutto, quando torno a Dogliani sento che c’è una forza che appartiene ai miei avi, la ritrovo nei luoghi in cui ho vissuto. Il bricco che raggiungevo con i miei genitori, un prato che dominava le Alpi che era la meta delle nostre passeggiate, lì abbiamo visto anche un’eclissi. Volevo tenervi un concerto, ma piovve troppo… Prima o poi lo farò. Ho anche scritto una musica, Il sentiero dei fossili, perché in Langa se ne trovano ancora».
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