Come deve cambiare il nostro rapporto con la natura secondo l’Ipbes

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Il nostro pianeta attraversa una crisi profonda, ma due corposi rapporti dell’Ipbes indicano alcune vie di uscita.

  • L’Ipbes (Intergovernmental platform on biodiversity and ecosystem services) ha pubblicato due corposi rapporti, frutto del lavoro di centinaia di esperti.
  • Il primo parla dell’interconnessione tra biodiversità, acqua, cibo, ambiente e cambiamenti climatici, aspetti che finora sono stati affrontati con una logica a compartimenti stagni.
  • Il secondo sottolinea come sia necessario un cambiamento trasformativo: impegnativo, ma comunque meno costoso rispetto all’inazione.

In un mondo in cui è tutto interconnesso, in cui biodiversità, acqua, cibo, salute e cambiamenti climatici sono al centro di crisi che si influenzano e si alimentano l’una con l’altra, non bastano più le timide riforme isolate. Serve una trasformazione radicale del nostro modo di interagire con la natura. È il perentorio messaggio che emerge da due studi approvati lunedì 16 dicembre dalla sessione plenaria della Intergovernmental platform on biodiversity and ecosystem services (Ipbes). Si tratta di un organismo internazionale indipendente di cui fanno parte i rappresentanti di 147 governi, descritto spesso come un equivalente dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici), ma con la biodiversità come focus.

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Un pianeta in cui è tutto interconnesso

Il primo di questi studi, ribattezzato per brevità Nexus report, suffraga a suon di dati ed evidenze scientifiche una verità: biodiversità, acqua, cibo, ambiente e cambiamenti climatici sono tante facce della stessa medaglia. Per com’è strutturato il nostro sistema decisionale, a livello politico ed economico, tendiamo però ad agire per compartimenti stagni.

L’esempio da manuale è l’alimentazione. Le pratiche agricole intensive adottate negli ultimi anni hanno incrementato le rese e quindi l’apporto calorico di parte della popolazione globale ma, al tempo stesso, hanno danneggiato gli altri elementi di questa pentade (cioè biodiversità, acqua, ambiente e cambiamenti climatici). Creando, di fatto, un circolo vizioso. Se produrre più cibo significa sacrificare la qualità in nome della quantità, viene meno anche la diversità delle risorse genetiche che sta alla base di una dieta sana. Che, non a caso, nel 2021 il 42 per cento della popolazione globale si poteva permettere; una percentuale che sale all’86 per cento per i paesi a basso reddito e al 60 per cento per quelli a medio reddito. Nel 2017 sono stati quasi 3 milioni i decessi associati a un apporto insufficiente di cereali integrali.

Un modo per spezzare questo circolo vizioso c’è e passa per la riscoperta dell’armonia con la natura. Il rapporto dell’Ipbes fa l’esempio del Niger dove, coinvolgendo in prima persona gli agricoltori locali, l’agroforestazione e la piantumazione di alberi nativi ha permesso di rigenerare cinque milioni di ettari. Le rese delle coltivazioni di cereali sono aumentate del 30 per cento ma al tempo stesso sono migliorate anche la biodiversità e la salute del suolo. L’esatto contrario di ciò che accade con le monocolture intensive.

La salute umana e quella del pianeta sono la stessa cosa

Prendersi cura della biodiversità e del pianeta significa anche salvare vite umane, come sottolinea peraltro l’approccio One health dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Nel 2019, 9 milioni di decessi (il 16 per cento del totale planetario) sono stati presumibilmente causati dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Il 58 per cento delle malattie infettive umane note sono destinate a peggiorare a causa dei cambiamenti climatici. Cambiamenti climatici che hanno contribuito a decine di migliaia di morti per il caldo (di cui 62mila in Europa nel 2022) e a circa 2 milioni per i 12mila eventi estremi verificatisi negli ultimi cinquant’anni.

Anche in questo caso, si può intervenire sul sintomo o sulla causa. Lo studio dell’Ipbes fa una settantina di esempi concreti. Tra cui quello della schistosomiasi, un’infezione innescata da parassiti chiamati trematodi. È una malattia molto comune – si parla di circa 200 milioni di casi nel mondo, prevalentemente in Africa – e può lasciare strascichi anche nel lungo termine. Somministrando i medicinali, le persone guariscono. È un risultato positivo, ma c’è pur sempre la possibilità che si infettino di nuovo, visto che questi vermi proliferano nelle acque dolci contaminate. Un progetto avviato in Senegal dunque ha seguito un approccio diverso: è intervenuto proprio sull’inquinamento idrico e ha rimosso le piante invasive che, a loro volta, erano l’habitat ideale per le lumache che ospitano il parassita. Il risultato? Un calo del 32 per cento delle infezioni nei bambini, ma anche un più ampio accesso all’acqua dolce, con benefici economici per la comunità locale.

In Senegal, un progetto legato all’inquinamento idrico ha portato grandi benefici sanitari © Sergey Strelkov/iStockphoto

Perché l’Ipbes preme per un cambiamento trasformativo

I casi citati da Ipbes sono tanti, ma hanno qualcosa in comune: non basta intervenire sul problema preso singolarmente. “Un cambiamento trasformativo per un mondo giusto e sostenibile è urgente, perché si sta chiudendo la finestra di opportunità per fermare e invertire la perdita di biodiversità e per prevenire l’innesco di un declino potenzialmente irreversibile di funzioni ecosistemiche centrali e, in ultima analisi, del loro collasso”. A dirlo è la professoressa Karen O’Brien che, insieme ai professori Arun Agrawal e Lucas Garibaldi, ha coordinato la stesura del secondo rapporto dell’Ipbes, dedicato proprio al cambiamento trasformativo.

Ma quando si può dire che un cambiamento è trasformativo? Quando coinvolge visioni, strutture e pratiche. Quelle dominanti, infatti, non fanno che perpetuare e rafforzare le cause profonde della perdita di biodiversità e del declino della natura. E dunque non possono più funzionare. Finché si rimane su questa descrizione astratta e generale, sembra di parlare di un’utopia. Ma gli oltre cento esperti che hanno lavorato a questo rapporto per oltre tre anni hanno sistematizzato centinaia di iniziative dal potenziale trasformativo già condotte in tutto il mondo, dimostrando che i risultati positivi possono arrivare nell’arco di un decennio.

Tutelare la biodiversità costa, ma l’inerzia costa molto di più

Agire immediatamente per fermare e invertire la perdita di biodiversità nel mondo, senza dubbio, costa. Ma l’inerzia costa dieci volte tanto. E il rapporto Ipbes lo dimostra attraverso i dati. Le attività economiche che sono moderatamente o fortemente dipendenti dalla natura generano ogni anno 58mila miliardi di dollari, cioè più della metà del prodotto interno lordo (pil) globale.

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Nonostante ciò, i governi di tutto il mondo continuano a spendere montagne di denaro per distruggerla, questa natura. Nel 2022 i sussidi pubblici diretti a settori che danneggiano il pianeta si sono attesati tra i 1.400 e i 3.300 miliardi di dollari, una cifra che continua ad aumentare. Per la tutela della biodiversità, invece, si investono appena 135 miliardi di dollari all’anno. Ne mancano all’appello, a seconda delle stime, tra i 598 e gli 824 miliardi. Eppure, sarebbe un investimento enormemente vantaggioso anche in termini economici: lo studio calcola un potenziale pari a 10mila miliardi di dollari entro il 2030, con la creazione di 395 milioni di posti di lavoro.

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