«Io, questore di Roma, poi prefetto a Chieti, ma poliziotto nell’anima»

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Foggia, Catania, Roma, per citare soltanto le principali tappe da questore. E un finale di carriera sulla poltrona di prefetto di Chieti.

Quale mestiere le è piaciuto di più?

«Senza dimenticare Alessandria e Ascoli Piceno – elenca con la proverbiale precisione Mario Della Cioppa, il superpoliziotto pescarese da poco a riposo – le mie prime sedi. Essere Questore di Roma, però, non ha eguali. Non è un semplice mestiere, ma un autentico servizio reso alle Istituzioni. Dopo 38 dei miei 40 anni di carriera trascorsi nella Ps non posso che sentirmi poliziotto fin dentro l’anima. Detto ciò, l’esperienza da Prefetto ha rappresentato un momento altrettanto importante».

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E in quale veste, l’uniforme o il doppiopetto prefettizio, è stata più congeniale alla missione di garantire sicurezza, coesione sociale e benessere alle comunità?

«La mia storia professionale è stata quasi sempre caratterizzata da estrema operatività sul campo. Una forte impronta operativa è emersa anche durante il mandato di prefetto della provincia di Chieti, dove ho dato priorità a tematiche che considero cruciali: garantire ordine e sicurezza pubblica, contrastare le infiltrazioni mafiose, in particolare con le numerose interdittive nei confronti di società ed enti sospettati di legami con la criminalità organizzata, e intervenire sulla protezione civile. Non posso, poi, dimenticare l’impegno nella gestione dell’accoglienza dei migranti. In definitiva, credo che entrambe le funzioni siano in grado di garantire azioni incisive e di ampio respiro a favore della collettività».

I primi mesi della meritata pensione dedicati alla scrittura: due libri in serie, saggistico il primo, incentrato sula figura del questore, decisamente “caldo” l’ultimo, dedicato agli anni roventi di Foggia: cosa c’era da aggiungere ai risultati conseguiti sul campo?

«Ho sentito un forte desiderio di condividere le mie esperienze con chi avesse voglia e tempo di ascoltarle. Con un grande collega questore, Maurizio Ficarra, abbiamo deciso di scrivere a quattro mani “C’era una volta il Questore”. Un capo della polizia illuminato, come Antonio Manganelli, sosteneva che “il centro deve essere a supporto del territorio, per consentire ai questori il massimo sostegno”. Oggi, invece, prevale una tendenza a centralizzare decisioni e processi organizzativi. Il secondo libro, “L’Ultimo Avamposto. Storia di coraggio e dedizione”, è stato invece un lavoro personale. Racconta il biennio 2017-2019 nella provincia di Foggia, un periodo segnato da un intervento di sistema che ha portato a decapitare i clan mafiosi che dominavano la Capitanata, responsabili di una lunga scia di violenza e omicidi. Il mio obiettivo era trasmettere un messaggio chiaro: legalità e rispetto delle regole non sono compiti esclusivi delle forze dell’ordine o dello Stato».

L’asse con il Foggiano è la costante del romanzo criminale pescarese, a partire dai traffici di droga con San Severo degli anni ’80. Che lezione dobbiamo imparare, a livello locale?

«Questa domanda mi offre l’opportunità di chiarire meglio un concetto: il rispetto della legge deve essere considerato un impegno corale, in cui Stato e cittadini agiscono insieme per il bene comune. Non spetta a me dare lezioni, ritengo però fondamentale che la cittadinanza di questa meravigliosa regione, così come la politica locale, rimangano sempre vigili e non sottovalutino mai i tentativi di infiltrazione provenienti da altri territori. Se la lotta al traffico di droga, al riciclaggio di auto e ai furti è un compito che spetta principalmente alle forze di polizia e alla magistratura, la difesa dell’economia pulita è una responsabilità condivisa».

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La “squadra Stato” è stata la sua intuizione vincente nella lotta alla mafia foggiana: sembra l’uovo di colombo, perché nessuno ci aveva pensato prima?

«A Foggia, quella che viene definita la “Quarta Mafia” è in realtà un insieme di plurime articolazioni mafiose autonome e indipendenti tra loro: parliamo delle organizzazioni del Gargano, dei cosiddetti Montanari, dell’area viestana, di San Severo e di Cerignola. Nell’agosto del 2017, queste mafie commettono un tragico e clamoroso errore: la “strage di San Marco in Lamis”, in cui un quadruplo omicidio colpisce non solo i bersagli designati, ma anche due innocenti. Quello è stato il momento in cui lo Stato è sceso in campo come mai prima, grazie a un ministro dell’Interno, Marco Minniti, e a un capo della polizia, Franco Gabrielli, di altissimo livello».

È un modello esportabile, con i dovuti adattamenti, ad esempio nel contesto pescarese e adriatico, comunque contrassegnato da una notevole vivacità criminale?

«Scrivere “L’Ultimo Avamposto”, in cui sono celebrati gesti di grande valore umano da parte di persone di spessore, ha avuto l’obiettivo di offrire una testimonianza di un modello che possa essere valutato e, eventualmente, replicato. Pescara, tuttavia, è una realtà completamente diversa. I foggiani ammirano Pescara come un modello di qualità della vita, un contesto che considerano più sostenibile. Le esigenze di sicurezza a Pescara non sono paragonabili a quelle della provincia di Foggia. Detto ciò, è fondamentale rimanere vigili».

Il controllo delle famiglie rom sul narcotraffico locale: quando è iniziata la riconversione di questa comunità dai tradizionali traffici legati a furti, usura e ricettazione?

«Negli anni ’90, quando ero capo della squadra mobile di Pescara, alcune famiglie rom, nonostante dichiarassero di non voler avere nulla a che fare con la droga, in realtà erano già attivamente coinvolte nella gestione del traffico di sostanze stupefacenti».

La demolizione del Ferro di cavallo non ha determinato, com’era prevedibile, la fine della principale piazza di spaccio del medio adriatico, come occorrerebbe agire?

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«Il modello di Caivano mi sembra quello che sta dando i risultati sperati, perché prevede una forte e determinata partecipazione dello Stato. Nella mia lunga esperienza professionale, ho imparato che più un’area territoriale è lasciata a se stessa, con poca presenza dello Stato, più essa diventa emarginata e, di conseguenza, un “buco nero”».

Perché lei dice che “scrivere è un atto di responsabilità”?

«Raccontare quell’esperienza, sia umana che professionale, non è stato solo un esercizio di memoria storica ma un atto di responsabilità verso le future generazioni».

Quaranta anni di Viminale, ricorda il primo giorno?

«Quaranta anni di Polizia, al fianco dei poliziotti, in mezzo alla gente, sul territorio e per il territorio. Il mio primo giorno lo ricordo come se fosse ieri, perché rappresentava il coronamento di un sogno».

Dai ranghi della questura di Pescara sono venute fuori belle figure di questori, possiamo parlare di “scuola pescarese”?

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«Pescara negli ultimi venti anni è stata effettivamente una buona scuola di vita professionale. A un certo punto, fra noi questori, si scherzava parlando della “colonia dei pescaresi”: Gianfranco Bernabei, Luigi Savina, Enrico De Simone, Giovanni Di Teodoro, Claudio Mastromattei, Paolo Di Domenico, Paolo Passamonti, Alfredo D’Agostino, Francesco De Cicco. Oserei quasi dire nu sem nu».

Il suo è, oggi, un curriculum da perfetta “riserva” della Repubblica: ha ricevuto richieste per continuare a servire la comunità?

«Credo che due libri come quelli che ho scritto sia un modo assolutamente utile per continuare a servire la collettività. Penso di continuare, ho già in mente il terzo».

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