“Sono colpevole ma ho fiducia nella clemenza di Dio”: chi era Antonio Petti, il molisano nella Rsi di Mussolini condannato per crimini contro civili

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Siamo a Castropignano, nella periferia del paese. Qui, c’è un villino del quale la gente non parla con piacere. Anzi, quasi preferisce non parlarne affatto. E il taccuino del cronista rimane bianco. Con la penna nel taschino, altro non resta che la semplice osservazione: mura scrostate, finestre scolorite e sbarrate, erbacce nell’atrio. Non c’è cassetta postale, nessun segnale di vita e di utenze attive. Lo stile e la fattura dell’edificio, ed anche una certa grazia architettonica, riportano tuttavia la mente ad un passato di splendore, ordine e fasti. «Apparteneva al torturatore di Modena», sussurra qualcuno a mezze parole; «a fine guerra lo hanno fucilato», aggiunge un altro, senza specificare ulteriori dettagli. Entrambi, poi, tagliano corto: lasciano intendere che hanno fretta e se ne vanno.

Di chi si parla?
Facciamo qualche passo indietro nel tempo e, precisamente, in epoca fascista. Si parla di Antonio Petti, geometra, nato a Castropignano il 12 giugno 1900, alla via Guardia, figlio di Clemente e di Filomena Giagnacovo. Militare del Regio Esercito militò anche nella M.V.S.N. (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), dove raggiunse il grado di Console. La sua prima annotazione matricolare degna di nota è del settembre 1918: Petti è a Caserta alla Scuola Allievi Ufficiali di Complemento. Sarà nominato Sottotenente nel successivo mese di marzo 1919, poi in forza al 31° Reggimento Fanteria per il servizio di prima nomina. A seguire, destinato a Sebenico nei reparti mobilitati, alterna, fino al 1922, anche periodi di congedo per motivi di studio. Nell’agosto del 1922, assolve definitivamente gli obblighi di leva. Nel 1930 viene nominato Tenente di Complemento dell’Arma di Fanteria, con anzianità di grado riconosciuta a decorrere dal primo gennaio dello stesso anno. Il 10 giugno 1935, viene «… messo a disposizione del Comando Generale della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale per l’inquadramento di unità CC.NN. (Camice Nere) mobilitate per esigenze A.O. (Africa Orientale) …». Militerà anche lui in Africa Orientale, inquadrato nelle Legioni CC.NN.. Nel 1938 consegue la promozione a Capitano per meriti eccezionali. Il 24 novembre 1940 è nuovamente a disposizione del Comando Generale M.V.S.N. e qualche settimana dopo è a Durazzo. Fino all’aprile 1941 sarà in zona d’operazioni sul fronte greco-albanese con il 72° Battaglione CC.NN. d’assalto. Dal 24 gennaio 1942 cessa di essere a disposizione del Comando Generale M.V.S.N. ed il 4 luglio dello stesso anno gli viene conferita la qualifica di Primo Capitano. Sino a quella data, risulta destinatario di numerose decorazioni, conquistate sul campo per meriti di servizio. Medaglie al valore, Croci di Guerra ed anche qualche encomio; il tutto, per attività nelle quali Petti aveva mostrato valore, sprezzo del pericolo, vicinanza e soccorso a commilitoni feriti, accorrendo talvolta sotto il fuoco nemico. Risulta agli atti anche un cavalierato dell’Ordine della Corona d’Italia. Dopo l’8 settembre 1943, Petti aderisce alla Repubblica Sociale Italiana.

(Antonio Petti in uniforme – Immagine da collezione privata in Castropignano –CB-, per gentile concessione. La fonte, ha chiesto di restare anonima)
(Antonio Petti in uniforme – Immagine da collezione privata in Castropignano –CB-, per gentile concessione. La fonte, ha chiesto di restare anonima)

Auf Wiedersehen Kamerad
Il primo luglio del 1944, con il grado di colonnello della Milizia, Petti assume il comando della Guardia Nazionale modenese, sostituendo il console Luigi Venturelli. Il reparto era insediato nell’Accademia. Da quel giorno egli diresse tutte le operazioni militari contro il movimento partigiano, nell’area di competenza operativa. Qualche mese più tardi, sarà al vertice del 42° Comando Militare. Gli eventi bellici precipitano il 21 aprile 1945: la V Armata avanza inesorabile, i partigiani sono pronti per lo scatto finale, inizia lo sbandamento dell’intero impianto repubblichino. Transita per Modena anche il Federale di Bologna Cosimini, in fuga verso il nord. Da Milano giunge il Federale Fontana, con l’ordine di imprimere fiducia ad un apparato ormai in via di disgregazione. Si susseguono riunioni in un clima di tregenda; impazziscono le comunicazioni tra Prefettura, Brigata Nera “Pappalardo”, caserma “Galuppi” e Accademia. Intanto gli Americani sono già a Samoggia (BO). Inizia il fuggi fuggi generale. Petti ha un’alzata d’ingegno: chiama i Tedeschi per chiedere cosa fare. Gli risponde un ufficiale, che lo scarica senza mezzi termini: «… Non sapere niente …. io aspettare ordini … Auf Wiedersehen Kamerad …»

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La fuga da Modena e il successivo arresto
Anche Petti ed i suoi uomini lasciano Modena. Ed accanto a lui, i suoi fedelissimi: il Capitano Bruno Piva, il Capitano Antonio Nespoli e il Colonnello De Rosis. Raggiungono Bergamo nella serata del 24 aprile ed il giorno dopo sono nei pressi di Como. Nello sbandamento generale, il reparto viene disarmato a seguito di intese col locale C.L.N.. Petti si dilegua e per un mese riesce a far perdere ogni traccia. Si fa chiamare Geom. Augusto Merlo ed afferma di essere un commerciante di bottiglie vuote. Si qualificherà proprio in questo modo alla polizia partigiana modenese che lo individua ed arresta il successivo 25 maggio. L’idea della falsa identità non aveva funzionato e, del resto, mai avrebbe potuto funzionare: qualche tempo prima, a seguito di un incidente con un’arma da fuoco, aveva perso il dito anulare della mano destra; proprio quella menomazione, ben nota a tutti, costituiva per i partigiani la vera carta d’identità di Petti. Lo portano quindi a Modena, nel carcere di S. Eufemia, a disposizione della Magistratura. Pubblico Ministero è il dr. Ermanno Missere.

Il processo e la condanna
Dopo una sommaria istruttoria, l’imputato viene rinviato a giudizio presso la C.A.S. (Corte d’Assise Speciale) di Modena. A carico di Petti, accuse pesantissime, relative e connesse alla sanguinosa repressione del movimento partigiano; tra tutte, le stragi di Rovereto di Novi e S. Giacomo Roncole di Mirandola. Saranno infatti ben otto i capi di imputazione, eccoli di seguito: aver ordinato e diretto azioni di rastrellamento; aver autorizzato la cattura, l’uccisione e la deportazione di partigiani; aver ordinato e permesso sevizie e torture ai catturati; aver ordinato perquisizioni domiciliari e l’arresto di familiari di disertori e partigiani; aver nominato Tribunali militari straordinari; aver fornito informazioni ai tedeschi sulla dislocazione, la consistenza e l’entità delle forze partigiane; aver richiesto ai tedeschi, il 14.2.1945, rinforzi per fronteggiare l’allarmante situazione nella zona di Carpi-Mirandola; aver supportato la ritirata tedesca del 22.4.1945 schierando reparti della Guardia Nazionale Repubblicana sulla via Nonantolana a protezione delle truppe germaniche. Il processo si svolge nella prima metà del luglio 1945 in una cornice di fortissime tensioni. In più occasioni, i Carabinieri devono proteggere Petti dalla folla inferocita. Qualcuno riesce persino a forzare il cordone di militari, raggiunge la gabbia e spunta in faccia a Petti. In udienza, l’imputato, si arrocca su posizioni difficilmente difendibili: scarica sui Tedeschi, dice di non sapere e di non aver visto. Durante l’interrogatorio, il Pubblico Ministero contesta fatti specifici. Vicende dolorose e drammatiche che vanno dai rapporti col famigerato U.P.I. (Ufficio Politico Investigativo), alla fucilazione di 15 rastrellati a Carpi (agosto 1944), alle torture e sevizie applicate agli arrestati, fino all’ esecuzione di giovani trovati senza armi, colpevoli non si sa di cosa. E l’elenco potrebbe continuare. Il P.M. rincara la dose e il cerchio accusatorio si stringe: viene data lettura di un rapporto redatto dal Colonnello Manfredi Bertazzoli Cova, Questore di Modena a partire dai giorni successivi il 21 aprile 1945. Si legge testualmente: «… da quando Petti venne a Modena, cominciò per la provincia un incubo di terrore …», ed ancora, l’imputato veniva definito: «… criminale e correo morale di tutti i suoi dipendenti …», ricordando anche le uccisioni del 10.11.1944 in Piazza Grande a Modena, dove trovarono la morte Emilio Po, Alfonso Piazza e Giacomo Ulivi. Poi sfilano i testi: genitori, mogli, figli, congiunti ed amici di persone torturate e trucidate. Le testimonianze sono strazianti, tant’è che anche Petti, talvolta, viene visto chinare il capo, quasi in segno di commozione e chissà, forse anche di pentimento. Il Pubblico Ministero chiede la pena di morte e la degradazione. Gli avvocati– Ferdinando De Cinque e Giuseppe Cardone del Foro di Bologna – si giocano il tutto per tutto e reclamano l’ergastolo ai sensi dell’articolo 58 del Codice Penale Militare. Il verdetto della Corte accoglierà invece la richiesta del P.M.: degradazione e pena di morte mediante fucilazione alla schiena.

Luglio-ottobre 1945: l’epilogo
I difensori non mollano e presentano ricorso in Cassazione, come previsto dal Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 142 del 22.4.1945. E intanto il tempo scorre. A fine luglio, la Questura di Modena si vede costretta a sensibilizzare il Ministero di Grazia e Giustizia con un lungo rapporto: un’esortazione finalizzata ad accelerare le decisioni della Suprema Corte. Si temevano infatti assalti alle Carceri Giudiziarie, disordini, tumulti e “giustizia fai da te”. Poi arriva finalmente la pronuncia. Tutto confermato: degradazione e fucilazione alla schiena. Ma Petti non si da per vinto, prende carta e penna e presenta domanda di grazia al Re. Passano i giorni, le settimane ed i mesi. Si arriva al 5 ottobre 1945. Alle ore 3,45 di quel giorno viene comunicato al condannato che il Luogotenente del Re – Principe Umberto di Savoia – ha respinto la domanda di grazia. Restano quindi poche ore di vita. Petti scrive tre lettere: una alla moglie, una ai figli ed una alla mamma. Le affida al Cappellano del Carcere, Mons. Iotti. Segue il trasferimento sotto scorta al Poligono della Sacca. L’esecuzione avviene alle ore 6,20 del 5 ottobre 1945. Queste, le sue ultime parole ripetute più volte al Cappellano: «Sono colpevole, ma ho fiducia nella clemenza di Dio». Rolando Balugani (1943-2017), giornalista e storico, persona coinvolta in prima persona nei drammatici fatti connessi alla repressione antipartigiana nel modenese (i fascisti gli ammazzarono il papà e due zii) in uno dei suoi dettagliati ed autorevoli lavori scriverà che «.. il Petti seppe morire da uomo, riconoscendo le sue colpe ed appellandosi alla clemenza divina … ».

Per i misfatti di Modena, Petti non fu il solo ad essere condannato alla pena capitale. A dicembre del 1945 analoga sorte toccò a Gioacchino Solito (un brigadiere autoproclamatosi colonnello), ma molti altri scamparono all’esecuzione: ergastoli mai scontati, amnistie e latitanze all’estero. In alcuni casi, fu proprio l’incontrollabile comportamento delle “folle furibonde” ad ostacolare il regolare andamento dei processi, determinandone il necessario spostamento in altre sedi (per ovvie ragioni di ordine pubblico), dove un minor coinvolgimento emotivo del pubblico presente consentì udienze più serene e prive di interruzioni, cui seguirono sentenze certamente più miti. La ricostruzione del caso Petti è stata possibile grazie al materiale storico-documentale gentilmente e tempestivamente fornito dall’Istituto Storico di Modena (Direttrice Dott.ssa Metella Montanari), cui rivolgiamo un particolare ringraziamento. 1943-45: un periodo drammatico della storia nazionale sul quale molto si è scritto e, di sicuro, molto resta ancora da scrivere.

Antonio Lanza

Fonti consultate.

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Ministero della Cultura:
Archivio di Stato di Campobasso – Ruoli matricolari
Direzione Generale Archivi – Portale Antenati – Stato Civile –
Istituto Storico di Modena:
Rolando Balugani, «La Repubblica Sociale Italiana a Modena» I Processi ai gerarchi repubblichini – Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza e di Storia Contemporanea di Modena
Giovanni Fantozzi, «Vittime dell’odio» L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945 – 1946)- Europrom Edizioni
«L’UNITA’ DEMOCRATICA» Organo del Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale – (Edizione di sabato 6 ottobre 1945)
Raffaele Sardella, «Castropignano» Studio sugli aspetti storici, folkloristici, sociali ed economici di un comune del Mezzogiorno – 1988, Editrice Pasquarelli
Istituto del Nastro Azzurro – Archivio Decorati
www.straginazifasciste.it



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