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L’orgoglio di Vergani, ultima azienda rimasta in città. L’aroma del panettone si spande fino a viale Monza. Il laboratorio dal 1949: «Ortodossi della tradizione»
Non c’è altra azienda, se non Vergani, che produca ancora il panettone a Milano (le altre, erano più di venti, hanno tutte «delocalizzato»). E non c’è altra strada, se non via Oristano, dove si possa dire, alla lettera, che si respira il Natale: il profumo del panettone si spande nel circondario intorno all’antico laboratorio, galleggia nelle vie di Gorla, nei giorni in cui lo spostamento d’aria è propizio arriva fino in viale Monza. «Almeno, questo è quel che ci dicono. Perché noi il profumo non lo sentiamo più», sorridono Stefano e Lorella Vergani, cugini, nipoti del Vergani Angelo da Gorgonzola, che al civico 6 di viale Monza aprì la sua prima pasticceria nel 1944; e poi nel 1949, data la sua perizia e il successo del prodotto, allargò la ditta comprando lo stabilimento di via Oristano, all’epoca in piena campagna. Qui trasferì casa e produzione: non la bottega, che rimase al suo posto, anche quando aprì un secondo negozio, in via Madonnina. «Da bambini la nostra casa era qui, sopra l’azienda. Nel profumo di panettone ci siamo cresciuti, ecco perché ormai lo distinguiamo a malapena».
All’alba d’ogni giorno, nel sancta sanctorum di questo stabilimento sulla riva della Martesana, dopo aver superato un budello di forni, impastatrici, carrelli, assi, corridoi, scaffali, sacchi di farina, sacchetti d’arancia candita e confezioni d’uva sultanina, un pasticciere raggiunge la cella più nascosta. E tira fuori la «madre»: che per l’intera notte è stata «legata con una corda nel telo». D’inquietante (all’apparenza) c’è solo l’antico modo di dire, in pratica è il gesto primordiale e rituale dell’incanto dolciario che sta per rinnovarsi.
La madre è il primo lievito naturale, predisposto la sera prima: da questo momento sarà trattato e curato, accarezzato e mescolato per altre 48 ore, restando l’anima della farina, dei tuorli d’uovo, dello zucchero, del burro, per finire (al termine d’un percorso che, per integralisti/puristi della ricetta tradizionale come i Vergani, dura quasi tre giorni) nelle bocche del forno. La rettitudine procedurale, a cottura completata, offre al visitatore un’immagine inedita e straniante: migliaia di panettoni delicatamente allineati, tutti appesi a testa in giù. «Perché la “struttura” è delicata, devono raffreddare così, a temperatura ambiente, altrimenti collassano».
In questi giorni, dai capannoni di via Oristano, che pur producono tutto l’anno («Anche questo rientra nella tradizione: nel dopoguerra a Milano la colazione al bar era cappuccino e fetta di panettone»), escono circa 10 mila panettoni al giorno. E però il dolce resta artigianale. Quella dei Vergani è una storia milanese non solo per il prodotto, ma per un modo di fare impresa in cui pesano l’orgoglio per la propria storia familiare, l’attaccamento alla propria città, la rivendicata ostinazione d’essere un’azienda moderna che sì, impiega la tecnologia, ma fino a un limite invalicabile: «Tutti i passaggi della tradizione artigianale milanese sono rispettati, solo trasferiti su scala più ampia — racconta Stefano Vergani — Abbiamo mantenuto le fasi manuali necessarie nella lavorazione e automatizzato, con macchinari costruiti su misura, esclusivamente ciò che non modificava la qualità del prodotto. Nessuna deroga rispetto all’antica procedura». Ecco il motivo per il quale si vedono gli operai far gesti che possono essere definiti solo ricorrendo agli iniziatici vocaboli del «panettonese»: puntatura, pirlatura, movimento di pirottini.
La partita doppia economico/aziendale è l’esito d’una doppia cocciutaggine personale/familiare: da una parte, fare il panettone tradizionale; dall’altra, farlo dentro Milano. Quest’ultima cosa rende la logista una sfida che, uscendo dalla città e moltiplicando gli spazi e i magazzini, sarebbe molto più semplice. Per la curiosità di chi voglia indagare la genesi, il percorso è questo: «Si toglie la madre dal telo e si inizia con i “rinfreschi”, che nella tradizione milanese sono tre. Di fatto, si dà lentamente alimento al lievito con impasti di acqua e farina, che poi vanno in cella riscaldata per continuare a lievitare per almeno tre ore. Di questi “rinfreschi” ne facciamo tre, dunque vuol dire più di dieci ore in tutto. Così trascorre un’altra intera giornata nel ciclo di preparazione. Questo è l’impasto “bianco”, perché ancora non ci sono le uova. Ed è importante concedergli tutto il tempo, perché il lievito è l’elemento principale, e deve fare il suo corso nel modo più naturale.
Nell’impasto successivo s’aggiungono burro e zucchero, e si fa un’altra nottata di lievitazione, poi arriva il momento dei tuorli e, proprio all’ultimo, scorza d’arancia candita e uva sultanina, se vogliamo stare alla ricetta milanese più tradizionale. La lievitazione così complessa è decisiva per l’alveolatura irregolare, molto caratteristica del panettone di Milano, e per lo sviluppo dell’aroma». Quello che in questi giorni filtra nelle strade, prima che i panettoni vengano incartati.
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