Contro la deriva illiberale non bastano i tribunali

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Sfuggire ai nemici o vincerli in una sfida mortale significa in ogni tempo, per il potente, avvertire in sé una misura accresciuta di vita. Per chi ha a cuore la democrazia come partecipazione e deliberazione plurale, non resta che resistere a questa aggressione con tutte le armi che compongono il repertorio dell’agire politico

«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza», scrive Elias Canetti nel suo capolavoro di antropologia politica del 1960, Massa e potere. Sfuggire ai nemici o vincerli in una sfida mortale significa in ogni tempo, per il potente, avvertire in sé una misura accresciuta di vita.

È alla luce di questa radice psichica profonda del potere che si possono leggere le conseguenze politiche della sentenza dei giudici di Palermo su Matteo Salvini nel processo Open Arms. Forse una condanna avrebbe fatto di lui un martire. Di certo l’assoluzione ha ridato vigore alla pretesa di pienezza e unicità della sua figura di leader. Che già reclama un nuovo protagonismo nella compagine di governo.

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È accaduto oltreoceano con Donald Trump. È già accaduto anche qui con Silvio Berlusconi. Se i sovrani paranoici del passato descritti da Canetti esigevano di veder crescere davanti ai propri occhi una massa di corpi morti per poter godere dell’esperienza del sopravvivere, oggi le forme del potere istituzionalizzate delle democrazie consentono questa ritualità solo nella forma dell’uccisione simbolica dei nemici: dalla vittoria nelle urne a quella in tribunale, fino alla character assassination.

Resta che, quanto più forte è la minaccia che il potente ha dovuto affrontare, tanto più glorioso e carico di promesse sarà il suo ergersi al di sopra degli avversari sconfitti.

Politica e giustizia

Lo scontro tra potere politico e potere giudiziario, che agita da decenni il nostro paese, contiene quindi elementi di pericolo ulteriori rispetto a quello più spesso evocato, della separatezza e del reciproco controllo. Il nodo, per chi contesta nella sostanza l’operato di politici che attentano ai diritti di migranti, richiedenti asilo, minoranze etniche o sessuali, è interrogarsi sugli effetti avversi che questo conflitto può portare con sé.

Ovvero, quanto il ruolo di opposizione di fatto che la magistratura spesso si trova ad assumere dinnanzi alle forzature di un esecutivo che pretende di porsi al di sopra di ogni altro potere possa finire per rafforzare quelle stesse pretese, a fronte di una vittoria nelle corti.

Come spesso ricorda Mariano Croce dalle pagine di questo giornale, siamo da tempo di fronte al conflitto tra un modello di governo a trazione giurisprudenziale e uno a trazione esecutiva, a detrimento del buon funzionamento della democrazia legislativa immaginata dai costituenti. E la sentenza sul caso Open Arms, in cui l’ex ministro dell’Interno era accusato di violazioni gravi dei diritti umani nell’esercizio delle sue funzioni, racconta, tra altre cose, come un’assoluzione giudiziaria possa finire per tradursi agli occhi governo – e, in parte, dell’opinione pubblica – in legittimazione dell’indirizzo politico.

Resistere all’aggressione

E allora ciò che manca in questo quadro non è una riforma della giustizia, come il governo grida a gran voce, Salvini in testa. Ciò che manca è lo spazio di agibilità per un’opposizione politica all’azione dell’esecutivo. La situazione, sotto questo rispetto, appare particolarmente grave per l’effetto concorrente di vari fattori, tra cui lo svuotamento del ruolo del parlamento, con conseguente riduzione delle opportunità effettive per la minoranza di fare opposizione in sede legislativa; e la centralizzazione leaderistica dei poteri di governo, accompagnata da disegni di ulteriore verticalizzazione del potere di impronta presidenzialistica.

Il conflitto politico tende perciò a spostarsi, di necessità, fuori dalle sedi istituzionali. Si ritrova in capo a quel che resta dei corpi intermedi, sindacati e partiti, indeboliti dalla forza dell’aggressione populista e dalla pretesa “disintermediazione” dell’azione dei leader. Soprattutto, appare affidato all’iniziativa dal basso della cittadinanza organizzata e dei movimenti sociali. Che, tuttavia, si trovano di fronte un governo sordo alle loro istanze, nonché a ostacoli sempre più pesanti, data la forza repressiva che il governo Meloni sta dispiegando contro ogni forma di contestazione.

Il ddl 1236 detto “ddl Sicurezza” – che le forze politiche e sociali di opposizione hanno ribattezzato “ddl Paura” – è l’espressione più eclatante (ma non l’unica) dell’intenzione della maggioranza di colpire il dissenso, comprimendo fino ad annientare il conflitto sociale.

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Per chi ha a cuore la democrazia come partecipazione e deliberazione plurale, non resta che resistere a questa aggressione con tutte le armi che compongono il repertorio dell’agire politico. Sapendo che non sarà il potere di interdizione dei giudici a fermare, da solo, la torsione illiberale e antidemocratica in atto.

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