Mostafa: «Integrare i minori non accompagnati in Italia. Si può: la mia storia lo dimostra»

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Mostafa arriva silenzioso e sorridente, un po’ timido, ma pronto a raccontare la sua storia, «dall’inizio».

È nato in Egitto, ad Asyut, ed è il più grande di 7 fratelli. Una famiglia numerosa, la sua, mantenuta a fatica solo dal padre. «Mio papà mi ha sempre detto di studiare e andare a scuola perché così “crescevo di più”», ricorda il ragazzo, oggi 22enne. Mostafa però voleva aiutare proprio quel padre che usciva di casa alle 5 del mattino per lavorare nei campi e rientrava a mezzanotte. Così, all’età di 9 anni, resosi conto delle difficoltà economiche della sua famiglia, cominciò, di nascosto dai genitori, ad andare nei campi, prima della scuola, per guadagnare qualcosa.

Fu in quel periodo che sentì per la prima volta di persone che partivano per l’Italia: «dicevano che lì si stava bene. Poi ogni tanto vedevo i turisti italiani arrivare in Egitto ed era vero, stavano bene!», spiega. «Tra i 9 e i 12 anni è stato difficile perché volevo solo andare in Italia per poter lavorare e dare i soldi alla mia famiglia – continua – In Egitto non vedevo futuro, avrei fatto la fine di mio papà». Il richiamo verso il Belpaese si faceva quindi sempre più forte per Mostafa che però, all’epoca, era solo un bambino. 

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L’unico che alla fine cedette alle sue ripetute richieste fu il padre: «aveva trovato una persona che mi poteva far partire con la barca. Ha venduto un pezzo di terra per il mio viaggio». Altre vie non sembravano possibili: «prendere un aereo costava troppo – spiega Mostafa – poi mi avrebbero chiesto un certificato militare, che però non avevo perché ero minorenne. Avrei dovuto dare tante spiegazioni, perciò ho deciso di salire sulla barca». E così, da Asyut si recò ad Alessandria per salpare alla volta dell’Italia su un barcone con altre 300 persone, senza avere la minima idea di che cosa lo aspettasse. Aveva 12 anni ed era solo. «Mia mamma non sapeva niente. Mio papà le aveva detto che stavo andando al Cairo per trovare lavoro». 

A bordo di quell’imbarcazione di fortuna, «ho visto le cose più brutte del mondo – ammette Mostafa – ho sentito la morte. Ho pregato e pensato tanto alla mia famiglia. Alle parole della mia mamma e del mio papà. Perché ero partito? – la sua domanda retorica – Perché volevo aiutarli» – la risposta che si dà da solo. «Il viaggio doveva durare al massimo 7 giorni. Al decimo non c’erano più né cibo né acqua. Degli africani del Senegal e del Congo mi hanno dato però dei datteri e dei succhi di frutta. Mi trattavano come un figlio». Dopo che era finita anche la benzina, la barca su cui viaggiava Mostafa venne avvistata da un aereo di soccorso che mise tutti in salvo. «Dopo 25 giorni in mare, sono arrivato in Italia, a Messina». 

A quel punto, Mostafa venne accolto in una comunità per minori stranieri non accompagnati, dove però non rimase a lungo. «Tutti andavano a Milano perché avevano parenti e amici. Dicevano che lì c’era lavoro. La comunità si è svuotata. Mi sono trovato da solo e così, insieme a un ragazzo senegalese, siamo scappati anche noi». Con i soldi cuciti dal papà nei pantaloni, Mostafa prese i biglietti per un pullman diretto a Lampugnano. «Quando sono arrivato in stazione però – rivela – dopo neanche mezz’ora mi ha fermato la polizia per chiedermi i documenti». Di quei giorni Mostafa si ricorda di essere andato in Questura, alla fermata della metro Turati, per poi essere trasferito in un’altra comunità per minori stranieri non accompagnati, a Gaggiano, poco fuori Milano. 

Da lì ripartì la sua vita, con un solo obiettivo: lavorare e mandare i soldi in Egitto, alla famiglia. Tuttavia, aveva pur sempre 12 anni e, come altri ragazzini migranti della sua età, anche lui era soggetto all’obbligo scolastico. Venne quindi inserito in una classe delle medie, come prevede la legge, anche se con qualche difficoltà: «Non sapevo l’italiano e non avevo ancora imparato bene l’arabo in Egitto. In più per me la scuola era un ostacolo a quello che volevo fare davvero», racconta. 

Avere la possibilità di accedere all’istruzione era però una fortuna per lui, da non dare per scontato soprattutto oggi, come emerge dai dati dell’ultimo report di Fondazione Ismu sui minori stranieri non accompagnati a scuola: un solo minore su cinque trova posto nei percorsi scolastici o formativi obbligatori.  

E furono proprio gli incontri a far cambiare idea a Mostafa: «c’era un professore che mi insegnava l’italiano, tutti i giorni, per due ore al giorno. È stato lui a farmi capire che qui in Italia avrei dovuto studiare almeno fino ai 18 anni. Mi sono convinto». «Due volte a settimana seguivo anche delle lezioni alla sera per imparare meglio la lingua», aggiunge, a conferma di quanto quei corsi fossero fondamentali per lui.  Padroneggiare l’italiano significava infatti riuscire a entrare in relazione con i suoi coetanei, come i suoi compagni di classe italiani, e quindi, soprattutto, non rimanere solo: «A scuola ho conosciuto tanti amici che poi mi hanno invitato a giocare a calcio insieme all’oratorio», afferma. Si emoziona ricordando uno dei suoi compagni più stretti, Tommaso: «mi invitava sempre a casa, per me lui era la mia famiglia». 

Poco per volta, grazie alla scuola e alle opportunità di integrazione date dalla comunità in cui viveva, Mostafa si sentiva sempre più “a casa”. A crescerlo in quegli anni erano le relazioni sane con i suoi coetanei e con alcune figure adulte, come il mister, l’allenatore di calcio: «Il mio cervello si è aperto – racconta, ricordando gli anni a Gaggiano – mi hanno insegnato a rispettare le persone e a trattarle bene. Io non ero abituato: in Egitto, a scuola, le insegnanti ci picchiavano, era quella l’educazione. Anche per questo non volevo andarci. Avevo paura, non riuscivo a concentrarmi se mi picchiavano». A Gaggiano invece Mostafa aveva trovato il contesto che tanto desiderava: «Volevo imparare. Seguivo tutto quello che mi dicevano i più grandi e poi io avevo un obiettivo: trovare lavoro e aiutare la mia famiglia in Egitto. Alcuni miei amici si sono un po’ persi, io invece andavo per la mia strada, non mi interessava altro».  

Mostafa quindi non si è perso. E se non l’ha fatto è stato anche grazie a una serie di servizi del territorio e del centro di accoglienza, come i corsi di lingua italiana e l’assistenza psicologica – gli stessi che però, con la conversione del decreto Cutro, non verranno più erogati, come emerge dall’ultimo monitoraggio normativo a cura dell’Osservatorio Nazionale sui Minori Stranieri Non Accompagnati del Cespi (Centro Studi di Politica Internazionale).

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A 15 anni Mostafa venne trasferito a Villapizzone nella comunità di seconda accoglienza “La Soglia di casa”, gestita dalla cooperativa Farsi Prossimo e coordinata da Giulia Brunetti. Anche lì, Mostafa si sentì in famiglia: «Giulia è stata come una mamma – sottolinea più volte – e io come suo figlio. Mi ha fatto entrare nel suo mondo e anche oggi, quando ho bisogno, c’è sempre per me. Lei, come tutti gli altri educatori, ha avuto tanta fiducia in me», racconta. 

In quel contesto, Mostafa continuò a studiare finché, a 16 anni, ottenne la licenza della scuola media. Da lì poteva percorrere due strade: o continuare gli studi oppure seguire un percorso formativo volto all’inserimento lavorativo. Una caratteristica de “La Soglia di casa” era d’altronde la stesura di un progetto educativo personalizzato che seguisse le esigenze specifiche di ogni ragazzo. Nel caso di Mostafa, data la sua fame di indipendenza, la via migliore da percorrere era, senza esitazione, la seconda, quella verso il mondo del lavoro. Così l’equipe educativa della comunità lo indirizzò a uno dei centri di formazione legati alla rete Farsi prossimo.

«Mi chiedevano “che cosa vuoi fare?” – riprende Mostafa, ricordando i primi incontri di orientamento al lavoro – e io rispondevo “quello che c’è”. Per me l’importante era lavorare». Grazie a una borsa lavoro, il giovane iniziò così il suo apprendistato in una macelleria: «In poco tempo ho imparato tanto: come trattare i clienti e servire bene, tutti i tagli della carne e il nome degli articoli». Anche nel contesto lavorativo, quindi, le relazioni lo hanno accompagnato e salvato: «il mio capo reparto è stato un grande insegnante per me. Mi ha invitato anche a casa sua a conoscere la sua famiglia. Non so perché sono stato così fortunato. Ho sempre incontrato delle belle persone», ammette. 

Non solo al lavoro, ma anche nella comunità “La Soglia di casa”, Mostafa dice di aver vissuto un’ esperienza positiva. Per lui gli educatori erano diventati un po’ i suoi genitori: figure presenti nelle diverse fasi della sua vita, come l’esame di terza media. «Mi aiutavano a studiare. Mi facevano ripetere le cose», ricorda Mostafa. Gli operatori c’erano però anche nei momenti più ludici, anch’essi fondamentali, resi possibili, ancora una volta, grazie agli altri servizi di Farsi Prossimo, come il progetto Poliedro. Questo Centro di Aggregazione Giovanile offriva infatti uno spazio di socializzazione e di libera aggregazione attraverso laboratori sportivi, di cucina o di teatro. Mostafa potè così continuare a giocare a calcio, la sua passione dai tempi di Gaggiano.  

Dopo quegli anni di formazione, soprattutto umana, al compimento dei 18 anni, era arrivato per Mostafa il momento di lasciare la comunità e trovare una soluzione abitativa alternativa, «un appartamento tranquillo», dice lui. Anche in questa fase – ricorda il giovane – è stato importante il supporto dato dai suoi educatori che lo hanno aiutato nella ricerca.

Oggi vive con altri cinque ragazzi egiziani, tra cui c’è anche Ahmed, il fratello che lo ha raggiunto percorrendo i suoi stessi passi, a partire dal viaggio in mare. I due non saranno da soli per molto: «è in Italia anche Esham, il mio fratello più piccolo. Ha 17 anni, ed è accolto in una comunità per minori a Uruguay, Milano. Ha già preso la licenza media e lavora in una pizzeria», racconta il ragazzo, fiero. 

Mostafa adesso è assunto in una macelleria e continua a mandare in Egitto parte del suo stipendio: «È  sempre stato il mio obiettivo. Sembrava impossibile, ma ho mantenuto una promessa. All’inizio Dio era l’unico che mi vedeva. Poi tanta gente mi ha aiutato. Sono molto orgoglioso di me», afferma, un po’ incredulo. Ora, vuole stabilizzarsi in modo da poter creare una famiglia a Milano. Ad interrompere la chiacchierata c’è stata infatti una chiamata di Nada, la sua futura moglie, incontrata in uno dei suoi viaggi di ritorno in Egitto. «Ci sposeremo e poi la porterò qui in Italia», spiega il ragazzo, felice e fiducioso verso il futuro. 

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«Chi segue i percorsi come si deve e tiene l’aggancio si ritrova nella situazione di Mostafa. Lui era arrivato con un certo tipo di impostazione, ma non è scontato. La maggior parte si perde un po’», dice la coordinatrice della sua vecchia comunità di accoglienza, Giulia Brunetti. Bisogna poi considerare che non solo la predisposizione di Mostafa era eccezionale, ma anche le condizioni di accoglienza e di accompagnamento che ha trovato allora. 

Il percepito aumento dei flussi ha portato a nuovi assetti in materia di accoglienza dei Minori stranieri non accompagnati, ben riassunti in un recente documento di Anci e nell’ultimo report di approfondimento semestrale del Ministero dell’Interno. Emerge, in particolare, che nelle strutture di I accoglienza (Fami, “Fondo asilo migrazione e integrazione 2014-2020”) e in quelle Sai (servizio accoglienza e integrazione) di II accoglienza, non ci sono abbastanza posti. Così, gli ultra14enni vengono accolti in strutture ricettive temporanee come i Centri Accoglienza Straordinari per minori (Cas) e, in caso di momentanea indisponibilità anche di questi, i minori ultra 16enni vengono spostati in una sezione dedicata dei Centri Governativi di Accoglienza per Adulti e delle Strutture Temporanee per Adulti, per un periodo fino a 5 mesi.

Viene quindi da chiedersi: come sarebbe cambiato il percorso di Mostafa se fosse stato trasferito in un centro per adulti o se se non avesse ricevuto gli strumenti adeguati, come la conoscenza della lingua italiana o la possibilità di andare a scuola?

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