La situazione economica attuale, in particolare quella industriale, è evidente a tutti. Nicola Rossi, già professore ordinario di Economia presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore del libro “Un miracolo non fa il santo” (Ibl Libri), che analizza la storia economica italiana dal 1861 al 2021, inclusi gli anni del boom del dopoguerra, sottolinea che «è cruciale comprendere che siamo in una fase di stagnazione da trent’anni».
Quali sono le cause di questo arresto economico?
Due sono i principali fattori da considerare. In primo luogo, gli italiani sono stati gradualmente portati a credere che la soluzione ai loro problemi non fosse nelle loro mani, ma in entità esterne come l’Europa o lo Stato. Diversamente, durante il miracolo economico, figure come De Gasperi ed Einaudi erano convinte che la crescita e la ricostruzione dipendessero dall’iniziativa e dalla capacità di miglioramento degli italiani, e questo concetto veniva costantemente comunicato alla popolazione.
Qual è stato il secondo elemento negativo?
Molto tempo prima degli ultimi trent’anni, l’intervento dello Stato è diventato così opprimente da rendere difficoltoso per tutti migliorare le proprie condizioni. Attualmente, lo Stato non è solo gravoso in termini di tasse e spese pubbliche, ma anche invadente nella sua capacità di regolamentazione. Anche qui, guardando agli anni del miracolo economico, la differenza è chiara: allora si cercava di contenere la spesa pubblica e le tasse, permettendo agli italiani di esprimere il loro spirito imprenditoriale. Si percepiva un dinamismo sociale, ben diverso dalla stagnazione degli ultimi trent’anni.
È possibile oggi cambiare direzione?
Certo, e alcuni segnali in questo senso continuano ad emergere. Ad esempio, quando il presidente del Consiglio nel suo discorso di insediamento afferma “Non disturbiamo chi fa”, invia un messaggio significativo agli italiani. Analogamente, quando il ministro dell’Economia presenta bilanci ispirati a prudenza e responsabilità, segue la stessa direzione, evitando di proporre le soluzioni avventate degli ultimi quindici anni che vedevano nelle manovre economiche la risposta a ogni problema. Purtroppo, accanto a questi segnali positivi, ne arrivano anche di contrari.
Quali sono questi segnali negativi?
Ad esempio, l’idea di estendere le concessioni idroelettriche o di nominare rappresentanti del Ministero dell’Economia nei consigli di revisione o nei collegi sindacali delle aziende che ricevono finanziamenti pubblici. Questi interventi limitano il messaggio di liberazione del Premier e dovrebbero essere evitati per non ostacolare l’attività degli italiani e per risvegliare in loro il desiderio di agire, conscio che altrimenti continueremo a impoverirci come negli ultimi trent’anni.
Sono efficaci le misure a supporto delle imprese come l’Ires premiale inserita nella Legge di bilancio?
Sì, anche se sono convinto che l’obiettivo dovrebbe essere utilizzare ogni risorsa disponibile non per premiare o punire, ma per ridurre il carico fiscale per tutti, lasciando poi a ciascuno la libertà di scegliere come migliorare la propria situazione. Ci sono aziende che possono crescere aumentando l’occupazione o gli investimenti, mentre altre possono espandersi attraverso acquisizioni. Non spetta a un ufficio ministeriale decidere quali siano le strategie migliori per la crescita o l’innovazione, semplicemente perché non ne ha la capacità.
La riduzione delle tasse per tutti è un obiettivo della riforma fiscale in corso di attuazione?
Sì, ma con una precauzione: è necessario evitare di complicare ulteriormente il sistema, che dovrebbe invece diventare più chiaro, semplice e trasparente.
Ha menzionato l’impatto negativo di uno Stato troppo invadente. Questo si applica anche alle normative europee sulla transizione, considerando gli effetti sull’industria automobilistica?
Purtroppo la tendenza a regolare minuziosamente l’attività economica, presente non solo in Italia ma anche in Europa, è evidente. Il settore automobilistico è solo uno degli esempi, ma è particolarmente significativo perché politici e burocrati hanno stabilito scadenze basandosi su conoscenze chiaramente incomplete, senza considerare ad esempio la concorrenza cinese. Ora i produttori, che avevano fiducia nelle indicazioni politiche su tempi e modi della transizione all’elettrico, si trovano in difficoltà. È un esempio chiaro del fatto che le aziende dovrebbero essere più caute e non seguire ciecamente le direttive politiche, dato che queste ultime sono spesso limitate nelle loro conoscenze.
Le aziende, tuttavia, non potevano ignorare quelle normative imposte dall’UE…
Non lo contesto, ma non ho notato una loro reazione significativa quando queste normative sono state introdotte.
Ora si discute di modificare queste normative, ma dalle sue parole sembra preferibile non averle affatto.
Un mondo senza regole sarebbe molto problematico, quindi non immagino nulla del genere. Tuttavia, la pervasività e le modalità della regolamentazione dovrebbero essere viste con grande scetticismo. L’UE è di fronte a sfide importanti – non solo le due transizioni, ma soprattutto quella relativa alla difesa comune – e dovrebbe limitarsi a fornire un quadro generale entro cui lasciare che la società europea si muova liberamente, invece di cercare di definire ogni passo del percorso. Questo atteggiamento è probabilmente anche un risultato della struttura attuale dell’Europa, con un governo che tende ad essere molto burocratico e poco politico nel senso positivo del termine.
È possibile, quindi, cambiare direzione anche in questo caso?
Sì, è possibile intraprendere una strada diversa, nessuno ci obbliga a continuare sulla via dell’impoverimento, ma è essenziale che gli italiani e gli europei capiscano che la soluzione alle questioni è nelle loro mani e che le classi dirigenti italiane ed europee riconoscano che possiamo uscire pienamente da questa situazione solo se lasciamo che siano i cittadini a farlo. Dobbiamo abbandonare l’idea, particolarmente diffusa negli ultimi quindici anni, che la risoluzione dei problemi spetti allo Stato. Mi sembra chiaro che non sia così, non so quali altre prove siano necessarie.
(Lorenzo Torrisi)
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