Anno nuovo, partiti (senza offesa) vecchi, con diversi problemi da affrontare e risolvere. Vediamo quali, partendo dalla maggioranza. Fratelli d’Italia ha una guida salda, ha nelle sue mani l’indirizzo politico del governo ed è stabile nei consensi (intorno al 30%). Ma non basta per dormire sonni tranquilli. Sono almeno tre le questioni con le quali Giorgia Meloni dovrà misurarsi nei mesi a venire. Per cominciare, come posizionarsi nello scacchiere globale ridisegnato dal nuovo inquilino della Casa Bianca. La svolta europeista dopo l’arrivo a Palazzo Chigi – emblematica del suo pragmatismo da professionista della politica – le ha assicurato vantaggi d’immagine, in termini di affidabilità sulla scena internazionale, e risultati pratici (la vice-presidenza esecutiva per Raffaele Fitto nella nuova Commissione). Le ha consentito altresì di fugare ogni dubbio sul posizionamento di politica estera dell’Italia. Deve ora riuscire a stringere buoni rapporti con Trump senza incrinare quelli altrettanto buoni con la von der Leyen. Non sarà facile, ma a suo vantaggio dovrebbero giocare due fattori: l’affinità ideologica e gli storici rapporti di collaborazione col mondo repubblicano statunitense; e soprattutto l’essere a capo dell’unico governo europeo stabile e che ancora gode di un significativo consenso popolare. Trump, sulla carta isolazionista e protezionista, è a sua volta più realista e pragmatico di quanto dica la sua propaganda.
Secondo e terza questione: le difficoltà gestionali da crescita elettorale troppo veloce e i rapporti con gli alleati. Il che si traduce, da un lato, nella necessità per FdI di attingere collaboratori, quadri organizzativi e personale politico oltre la storica base militante post-missina, in modo da evitare la sindrome da cerchio magico – con la fedeltà personale e ideologica che fanno premio sulla competenza e la lealtà politica – già risultata fatale per altri leader. Dall’altro, nella necessità di un rapporto più formalmente paritario e meno segnato da pretese egemoniche con le altre componenti strutturali del centrodestra. Per evitare l’errore commesso da Berlusconi quand0 da socio forte e leader riconosciuto pensò di atteggiarsi a monopolista della coalizione.
La Lega, per venire appunto agli alleati, fibrilla e fibrillando fa fibrillare il governo, anche se le speranze che lo faccia cadere – come nemmeno troppo segretamente sogna l’opposizione – esprimono soltanto le difficoltà di quest’ultima. Salvini ha trovato un giudice a Palermo che l’ha assolto, ma resta la sua inquietudine. Frutto dei rovesci elettorali degli ultimi anni e del crescere di un malessere nel partito che però non è ancora divenuto opposizione aperta alla sua leadership.
Vorrebbe nuovamente il Viminale per riprendersi, come suole dirsi, la scena pubblica. Ma il problema di Salvini e della Lega non è d’immagine, è politico-programmatico. Non è riuscito il tentativo di caratterizzarsi in chiave nazional-sovranista e di radicarsi nel centro-sud. L’operazione Vannacci alle ultime europee ha portato sì voti al partito, ma ha creato un concorrente a destra che su certi temi (immigrazione, anti-Europa, rapporti con la Russia, denuncia del politicamente corretto) ha finito per fare ombra allo stesso Salvini.
Il prossimo febbraio dovrebbe svolgere un congresso anticipato. Il modo scelto da Salvini, si dice, per blindare la propria posizione prima che si profili un’alternativa seria al suo nome. Ma in quella sede si dovrà parlare soprattutto della linea politica da seguire. L’alternativa alla Lega nazionale potrebbe essere una sorta di ritorno alle origini, alla Lega “partito del Nord” e dei suoi interessi sociali e imprenditoriali: quel che chiedono molti governatori e storici esponenti leghisti, ai quali il Salvini un tempo padanista potrebbe finire per dare ascolto.
Infine, Forza Italia. Il peso della famiglia Berlusconi sul partito è ancora molto forte, ma farne una sua dependance politica è solo un argomento polemico. Forza Italia – in quanto centro cristiano-liberale schierato col popolarismo europeo – ha una sua base elettorale e progettuale autonoma. Tajani, dal canto suo, ha dimostrato che nell’era della politica urlata, aggressiva e muscolare una leadership pacata e riflessiva, gli avversari dicono grigia e incolore, può risultare efficace per contrappasso.
Il problema del centro in Italia, specie quello che vuole rivolgersi ad un mondo cattolico in questo momento storico assai smarrito e quasi scomparso dalla scena pubblica, non è la moderazione dei toni (che c’è ed è apprezzabile), ma il radicalismo dei contenuti e delle proposte (che ancora manca). Sulla famiglia. Sulla difesa del ceto medio. Sui valori non negoziabili. Sul senso di patria e l’identità italiana. Sulle sfide della tecnologia alla tradizione umanistica europeo-occidentale. Sul ruolo pubblico del sentimento religioso. Sul tracollo della scuola pubblica. Se l’obiettivo ambiziosamente dichiarato da Tajani è il 20% è su questi temi che bisognerà lavorare.
Per venire invece all’opposizione, nel Pd Elly Schlein è riuscita nel compito più difficile. Prendere il controllo di un partito che non era il suo, estromettendo uno dopo l’altro – con la vecchia tecnica della promozione-rimozione – i vecchi capocorrenti d’estrazione post-comunista e post-democristiana. Il Pd federazione di storici potentati quasi non esiste più. Resistono al centro Franceschini e in periferia De Luca, ma il cambio – generazionale e culturale – verso una sinistra transnazionale tutta ecologismo, diritti soggettivi, inclusione del diverso, multiculturalismo, elogio delle minoranze oppresse, lotta al patriarcato e globalismo umanitario sembra compiuto.
Il problema del Pd è se su queste basi ideali – in un mondo sempre più instabile tra conflitti armati e spettro di una recessione economica, che cerca sicurezza e agganci identitari collettivi – possa costruirsi un’alternativa di governo credibile, senza che la vittoria alle urne passi dall’assemblaggio strumentale di forze sparse ed eterogenee in semplice funzione anti-destra.
Il rischio in questo caso è avere per compagno di viaggio un partito strutturalmente poco malleabile come il M5S. Conte ha vinto il suo braccio di ferro politico con Grillo, al netto di future battaglie legali sull’uso del simbolo. Ma le etichette che ha scelto per il post-grillismo – “progressisti indipendenti”, “progressisti ma non di sinistra” – sembrano indicare una nostalgia da potenziale terza forza disposta ad alleanze tattiche con la sinistra d’ogni tendenza ma senza mai rinunciare alla sua libertà d’azione.
Il prossimo anno il copione potrebbe essere questo: il Pd che corteggia il M5s puntando in realtà a prosciugarne sempre più la base elettorale, Conte che si propone alla Schein come alleato decisivo con la riserva mentale di sganciarsi se altri scenari o opportunità per lui più vantaggiosi dovessero mai profilarsi.
Ci sarebbe da dire, per completezza, anche su Verdi e Sinistra radicale, su Renzi e Calenda, sui moderati di Lupi e i radicali ultraeuropeisti, ma lo spazio dell’editoriale è finito. Non finirà nemmeno nel 2025, per loro fortuna, quello politico. Nel sistema partitico-parlamentare italiano ci sono infatti vasti interstizi nei quali le piccole forze, specie se guidate da capi abili e ambiziosi, possono abilmente inserirsi, ottenendo posizioni di potere e margini di condizionamento ben superiori ai voti che hanno. Verrà da loro la sorpresa o novità politica del nuovo anno?
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