Finalmente anche in Italia se ne parla diffusamente, anche se per molto tempo è rimasto in tabù, nascosto tra le pieghe del consumismo sfrenato che ha guidato come un faro i mitici anni ’80 e ’90: anche i vestiti fanno male all’ambiente. Motivo per cui, negli ultimi anni e anche da noi, quello degli abiti usati è diventata una vera e propria moda, una tendenza che, al di là del suo aspetto intrinseco radical chic, ha portato il trend del second hand a diventare un grande business, tanto che nel prossimo futuro crescerà ancora parecchio.
Oggi sappiamo che la produzione di vestiti richiede un uso eccessivo delle risorse naturali: grandi quantità d’acqua per coltivare il cotone e realizzare tessuti sintetici, enorme impiego di energia per alimentare fabbriche che emettono grandi quantità di gas serra e spesso, soprattutto in Paesi del Sud del mondo con legislazioni blande o inesistenti, che poi sversano i coloranti in fiumi e torrenti, danneggiandone gli ecosistemi locali. Le grandi catene di abbigliamento, poi, stimolando un ricambio di capi continuo, seppur indirettamente incentivano il formarsi di enormi quantità di abiti destinati alle discariche e difficili da smaltire.
Quanto sta crescendo il mercato della moda second hand
Ecco perché il mercato globale dell’abbigliamento di seconda mano continua a crescere, a testimonianza del valore anche intrinseco che le persone trovano nell’esperienza dell’usato: una svolta epocale verso una moda più sostenibile e circolare. Il reselling è strettamente legato al tema ambientale: lo dice il 60% dei consumatori che fa acquisti di seconda mano. Motivo per cui sempre più marchi stanno investendo nella second hand.
Dalle ultime stime elaborate dal Boston Consulting Group con la collaborazione della piattaforma Vestiaire Collective, il giro d’affari mondiale che ruota attorno al riuso dei capi vale oggi oltre 100 miliardi di dollari e sembra destinato a salire a un ritmo del 20% l’anno nei prossimi 3 anni.
Secondo il recente Resale report di ThredUp, 2 capi di abbigliamento su 5 acquistati nel 2023 sono stati di seconda mano. Nel 2025 una vendita su dieci interesserà proprio vestiti di seconda mano e il mercato potrebbe arrivare a toccare i 350 miliardi di dollari nel 2028. Solo il mercato Usa dovrebbe raggiungere i 73 miliardi di dollari.
La rivendita sta guidando la crescita dell’usato. Nel 2023, il fenomeno del rivendere abiti usati è cresciuto 15 volte più velocemente rispetto al settore generale dell’abbigliamento al dettaglio: la rivendita online in particolare ha registrato una crescita del 23% su base annua. Il 63% dei consumatori che ha comprato di seconda mano nel 2023 ha effettuato un acquisto online: si tratta di 17 punti in più rispetto al 2022.
C’è poi anche un aspetto economico: i consumatori che rivendono l’abbigliamento guadagnano soldi extra. Il 69% dei consumatori che ha rivenduto vestiti nel 2023 ha avuto un incasso e il 49% ha utilizzato i contanti per pagare beni di prima necessità come cibo e bollette.
Il reselling, poi, aumenta la circolarità e genera entrate. L’87% dei marchi che offrono la rivendita afferma che ha aumentato nettamente i propri obiettivi di sostenibilità. Il 67% afferma che la rivendita genererà un flusso di entrate significativo, oltre il10% del totale, per l’azienda entro 5 anni.
Il mercato degli abiti usati in Italia: i dati
Solo in Italia, secondo quanto riportato nel report Ipsos “Second hand, first choice?” presentato in occasione di un evento esclusivo in collaborazione con Humana People to People, che ha indagato il fenomeno del second hand e il concetto di moda sostenibile in Italia, su un campione di oltre 1500 persone, il 74% si dichiara interessata alla moda sostenibile, senza alcuna differenza tra le diverse generazioni. Mentre l’impatto della moda in termini di inquinamento è ancora sottovalutato: soltanto l’11% lo considera uno dei settori più inquinanti.
Il mercato del second hand in Italia, che comprende sia la vendita sia lo scambio, ha come attore principale la GenZ, al primo posto tra le generazioni per percentuale di acquirenti, 26%, e di venditori (10%). Il 29% degli intervistati dichiara poi di essere attivo nella vendita dei propri capi di abbigliamento, mentre una percentuale più alta (47%) si dedica esclusivamente all’acquisto. La maggior parte degli acquisti riguarda abbigliamento generico (72%) e borse (27%) e per il 63% riguarda marchi non di lusso, rispetto ai marchi di lusso (37%).
I negozi fisici, i mercatini e le fiere rimangono i canali di acquisto preferiti (79%), rispetto agli acquisti online (39%) e alle piattaforme come Vinted o eBay (31%). Il primo motivo che fa protendere all’acquisto di un indumento second hand è il risparmio economico (69%), mentre, ciò che maggiormente blocca è un pregiudizio sull’igiene (55%).
Chi compra abiti di seconda mano è interessato a evitare sprechi (54%), desideroso di dare nuova vita e storia ai propri abiti (46%) e a guadagnare dalla vendita di un capo usato (28%). Ma si tratta di un consumatore che, però, non sa ancora dove comprare second hand (21%), incerto sulle sue scelte (20%) e preoccupato per il fitting del capo usato (19%).
Sempre più brand creano canali di vendita di seconda mano
Guardando questi dati, è chiaro come i brand ci abbiano visto lungo, tanto che il numero di quelli che offrono servizi di rivendita sono cresciuti di quasi il 40% solo lo scorso anno e del 31% anno su anno.
163 marchi stanno affiancando al fast fashion ora negozi di rivendita e c’è chi, anche in Italia, ha creato piattaforme second hand, come Your Closet My Closet (YCMC): grazie all’Intelligenza artificiale, le aziende di moda possono creare un proprio armadio digitale dove inserire tutte le caratteristiche della merce a disposizione, classificandola in base a filtri di stile. Con la app gli utenti possono poi selezionare ciò che vogliono e trovare gli abbinamenti giusti.
“Produrre tessuti sostenibili inevitabilmente genera un impatto ambientale, seppure contenuto” spiega la CEO di Mastra Sa’ Sara Loppo. “Penso banalmente all’energia necessaria per alimentare i macchinari, ad esempio. Invece, rimettere in circolo indumenti invenduti o inutilizzati ha un impatto pari a zero, se si escludono le emissioni generate dalla logistica. Non è più tempo di tergiversare: con il 2025 entrano in vigore le nuove normative europee che garantiranno una forte accelerazione alla decarbonizzazione del settore. Un tema molto sentito dalla clientela. I numeri parlano chiaro: a parità di costo, le persone preferiscono comprare prodotti dall’impatto ambientale basso o nullo“.
Lato venditori, c’è infine da segnalare la tendenza a sfruttare la rivendita come acquisire nuovi acquirenti: il 38% dei consumatori afferma di fare acquisti di seconda mano per permettersi marchi di fascia alta (in aumento di 11 punti percentuali rispetto al 2022).
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