Vinile sul Divano, forze gravitazionali divergenti

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// Gianluca Giorgi //

John Tchicai, Tribal Ghost (2013)
Tribal Ghost è un album eccezionale in cui si respira lo spirito e la storia del jazz in ogni solco, si può sentire John Coltrane, Pharoah Sanders, ma anche Lee Konitz e Jimmy Giuffre, mentre il suono di Garrison Fewell, che è la “star nascosta” del disco, ricorda Wes Montgomery, Billy Bauer o Grant Green. Un ottimo chitarrista jazz, che qui si supera aggiungendo piccoli tocchi, assolutamente controllato, espressivo, preciso e giusto. Fewell contribuisce ai primi tre brani del disco di 36 minuti, mentre Tchicai ha scritto il quarto, per un disco nel complesso lento e con una sensazione di malinconia in cui la fanno da padrone la passione contenuta e l’interazione dell’ensemble. Fewell brilla in ogni traccia per il suo elegante ed equilibrato lirismo, i fiati incantano per l’interazione sottile, mentre McBee ed Hart non sbagliano un colpo. Tutte queste influenze ed interazioni riescono a creare una musica stupenda, per questo disco che sorprendentemente è stato registrato durante la prima e unica residenza di una settimana di John Tchicai in un jazz club di New York, avvenuta quando John aveva 71 anni di età. Di madre danese e di padre congolese, John cresce a Aarhus nello Jutland, nel 1960 è a Copenaghen dove continua i suoi studi accademico-musicali intrapresi ad Aarhus e dove ha la possibilità di suonare con alcuni jazzisti danesi e statunitensi di passaggio. Nel 1962 partecipa al festival del jazz di Varsavia, poco dopo è al Festival Internazionale della Gioventù di Helsinki, qui incontra Archie Shepp e Bill Dixon, dai quali viene spinto a trasferirsi negli Stati Uniti. Giunto a New York, fonda insieme a Shepp il New York Contemporary Five. Successivamente diviene co-leader del New York Art Quartet con Roswell Rudd, Steve Swallow (sostituito successivamente da Lewis Worrell) e Milford Graves. Fino al 1966 sviluppa importanti collaborazioni con i più significativi esponenti della “New Thing” statunitense come John Coltrane, Pharoah Sanders, Albert Ayler, Sunny Murray, ecc., in più suona nella New York Jazz Composer’s Orchestra, partecipando a quell’Ascension di John Coltrane, forse la più influente delle ultime opere di Coltrane. Ritornato in patria collabora con i più noti esponenti dell’avanguardia improvvisativa europea come Misha Mengelberg, Han Bennink, Irene Schweizer, Albert Mangelsdorff, ecc. Insegna anche alla Scuola Superiore di Jazz danese e organizza seminari e laboratori in vari paesi del Vecchio Continente. Come la gran parte degli improvvisatori d’avanguardia, Tchicai non solo dimostra preferenze per la diversificazione delle fonti sonore, ma ama anche sperimentare i contesti più vari, dall’orchestra alla “solo performance. Si può affermare che è stato il collante fra il free di oltre Oceano e il free più radicale europeo dei primi anni ‘70: sassofonista dotato (alto e tenore), in possesso di un personale stile fatto spesso di fraseggi ripetuti oppure di combinazioni di note “spezzate”, Tchicai ha sempre cercato punti di evoluzione del suo sound. Ha approfondito sia le tematiche del jazz, in questo senso importanti sono le sue partecipazioni ai gruppi storici di Albert Ayler nel New York Art Quartet e di Don Cherry e Archie Shepp nei New York Contemporary Fivee, a quelli europei con l’Instant Pool Composers in cui partecipavano Hank Bennink e Misha Mengelberg, sia i punti di intersezione con altri generi, non disdegnando anche sonorità primordiali come il blues, le sonorità africane, le sonorità indiane, talvolta anche il jazz degli anni quaranta; all’interno di un concetto d’avanguardia che privilegiasse sempre la “libertà” dei suoni e la possibilità di “sperimentare”, arrivando a mescolare elementi che provenivano dalla musica classica con il free-jazz. Da menzionare in tal senso i vari progetti messi in essere da John: la Cadentia Nova Danica, fusione di world music con il jazz, la New Jungle Orchestra con Pierre Dorge e il Witchdoctor’s Son con Johnny Dyani, i numerosi trio o quartetti con personaggi spesso misconosciuti, tra i quali rivestono un posto di rilievo quelli con il chitarrista Pierre Dorge e il contrabbassista Niels H. Orsted Pedersen, il quartetto con due contrabbassisti Thomas Durst e Christian Kuntner assieme al batterista Timo Flaig, materiale questo spesso sottovalutato che andrebbe riscoperto. Nell’ultimo periodo vanno ricordate le esperienze veramente “speciali” dei concerti in cava e dei concerti in teatro con la Musica Sacra Nova, un incontro con la musica “colta” ed in particolare l’accostamento della musica liturgica cristiana e del free-jazz. John ha sfidato quasi ogni stereotipo dell’”avanguardia”, era un improvvisatore lirico che riusciva a bilanciare perfettamente il freddo intelletto con il calore emotivo. È stato un musicista spontaneo, con assoli ordinati e costruiti con grande cura, sempre aperto alle scoperte.

Amirtha Kidambi’s Elder Ones, Holy Science (cd 2016 lp 2020)
Disco uscito per la prima volta in formato digitale nel 2006 e solo in vinile nel 2020 grazie alla sempre attenta Jazzman. È il debutto di Amirtha Kidambi e del suo quartetto newyorkese The Elder Ones, è un album intriso di tradizione ma saldamente ancorato al presente e con uno sguardo al futuro, in cui si possono trovare tutte le influenze che hanno accompagnato Amirtha nella sua crescita musicale. Nata nell’India meridionale è cresciuta immersa nella tradizione del canto devozionale, avvicinato unendosi ai Bhajan improvvisati delle domeniche. Queste prime esperienze formative, nel tempo, si sono fuse con le musiche che la circondavano, mentre continuava a studiare musica classica ha cominciato ad avvicinarsi al punk, al’R&B e al rap. Una scoperta particolarmente significativa è stata quella del jazz libero e d’avanguardia e in particolare della musica dei coniugi Coltrane Alice e John, in cui Kidambi ha trovato chiari echi e parallelismi con quei Bhajan e Raga dei suoi primi anni musicali. Tutte queste influenze si possono trovare in Holy Science, album composto da 4 brani di media e lunga durata, pieno di suoni esplosivi come di momenti di beatitudine rilassante e meditativa, merito dei validi musicisti che l’accompagnano. Holy Science è un’opera piena di tradizioni, siano esse spirituali Bhajan, jazz o avanguardie classiche, che riescono ad avere una capacità di produrre una musica intrisa di scoperta e progressione, una musica antica, moderna e futuristica.

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Lakecia Benjamin, Phoenix (2lp 2023)
L’appariscente (molto appariscente anche nei live) e splendida copertina preannuncia la musica che andremo ad ascoltare in Phoenix, la quarta registrazione in studio della sassofonista contralto Lakecia Benjamin; una musica, potente, ribollente, fiera, la miglior sintesi delle radici musicali cui attinge la trentenne sassofonista di New York. Cresciuta in un quartiere dominicano di New York City ad alto tasso di musica latina, è stata avviata allo studio del jazz da nomi di rilievo come il trombettista Clark Terry ed il sassofonista Gary Bartz, ha avuto, inoltre, un solido background in ambito r’n’b, soul ed hip hop, grazie a collaborazioni con Missy Elliott e Alicia Keys ed inviti da parte di Prince e Stevie Wonder. In questo disco si presenta con un jazz nervoso, in cui pone una forte attenzione al tema dei diritti civili come si può ascoltare nel primo brano del disco “Amerikkan Skin” che si apre con i suoni di una guerriglia urbana, sfondo per le parole dell’attivista dei diritti civili Angela Davis: clima ritmicamente ribollente, atmosfere modali sviluppate attraverso brevi ed efficaci frasi melodiche scolpite geometricamente con il suo sax alto e spazio alle sortite soliste degli ottimi comprimari, a partire dal trombettisista Josh Evans. Schema che si ripete in tutto il disco. Lakecia crea un’opera a tema sul potere femminile con l’aiuto della produttrice Terri Lyne Carrington e di un incredibile cast di ospiti. Georgia Anne Muldrow che vocalizza nella title track dai richiami elettro-world, Diane Reeves alla voce nella soul ballad di impronta piuttosto convenzionale “Mercy”, Patrice Rushen presente in “Jubilation”, la poetessa Sonia Sanchez che declama lo spoken poetry in “Peace is a Haiku Song” e Wayne Shorter presente nel brano con sfondo elettronico “Supernova”. Ci sono due tributi estremamente riusciti scritti dalla stessa Lakecia, uno a John Coltrane “Trane”, una delle figure guida di Benjamin e un altro all’artista Jean Michel Basquiat “Basquit”. Un lavoro molto bello in cui Lakecia mette in evidenza la propria creatività e l’ottimo talento di cui è in possesso e che testimonia l’evoluzione musicale che questa sassofonista e compositrice ha avuto negli anni, un’ascesa stratosferica.

D’Silva Amancio, Konkan Dance (1972 ristampa 2021)
Per la prima volta stampato in vinile nel 2006 dall’italiana Qbico, ma inciso nel 1972, l’album perduto dell’Indiano residente in Inghilterra Amancio D’Silva, personaggio di grande rilevanza nella scena della sperimentazione e del jazz inglese degli anni ’60 e ’70. Nell’album prodotto da Denis Preston suonano personaggi del calibro di Don Rendell, Stan Tracey e Alan Branscombie. Il disco sarebbe dovuto uscire per la Columbia/EMI, ma la morte del produttore fece cancellare il progetto. Il lavoro è stato reso disponibile dal figlio di Amancio, Stephano, che ha fortunosamente recuperato l’originale master 1/4″ stereo registrato all’epoca al leggendario Lansdowne Studios di Londra, che nel 1959 divenne il primo studio a poter incidere in stereo in Inghilterra (esiste una vera e propria collana delle incisioni di questo studio denominata “Lansdowne Series” pubblicata dalla Columbia che vede incisioni di Don Rendell/Ian Carr 5ets, Joe Harriot, Neil Ardley). Questo album è, come anche il resto della sua rarissima produzione, straordinariamente suonato ed arrangiato, con utilizzo di tabla e sitar e con un groove che anticipa di 20 anni il trip-hop ed il Manchester sound! 4 brani molto belli, da segnalare “A song for Francesca” in cui ci sono tutti gli strumenti al posto giusto, flauto, sitar, tabla, piano elettrico, vibrafono a creare una soave melodia e la psichedelica title track con la sua chitarra acida. Certamente uno dei più interessanti esempi di jazz e sperimentazione misto a psichedelia e musica orientale mai prodotti non solo nei ’70 ma anche nell’intera storia delle contaminazioni tra i generi. Nato a Mumbai (aka Bombay) ma poi trasferitosi in Inghilterra, Amancio D’Silva (1936-1996) è stato un chitarrista, compositore ed insegnante, ricordato fra i pionieri dell’”Indo-jazz” degli anni ’60, capace di creare una sintesi fra il jazz modale e la musica classica indiana come il raga, come testimoniato dai suoi due rarissimi e leggendari album “Integration” (1969) e “Reflections” (1971), così come dagli altrettanto introvabili ed apprezzati “Hum dono”, sintesi fra jazz, musica indiana e caribica frutto della collaborazione fra D’Silva ed il sassofonista giamaicano Joe Harriott, e “Dream sequence”, uscito nel 1972 a nome Cosmic Eye, progetto che lo vedeva fra i protagonisti. Dopo la sua morte, sono apparsi alcuni lavori inediti quali “Konkan dance” (2006) e “Sapana” (2022).


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