di Alberto Molinari e Gioacchino Toni
Pochi giorni fa se ne è andato Gian Paolo Ormezzano, verrebbe da scrivere giornalista sportivo “vecchio stampo” se non fosse che rispetto a quel “vecchio stampo” il Nostro è stato più un’anomalia che non la normalità. Ormezzano ha fatto parte di una generazione di giornalisti sportivi che, spesso trincerandosi dietro la retorica della separatezza dello sport dal mondo in cui questo si esprime, ha inchiostrato le pagine di stereotipi non mancando di dispensare qualunquismo e di esprimere reverenza nei confronti dei potenti di turno – non solo dello sport – senza andare troppo per il sottile. Fortunatamente, in quel mare di qualunquismo e di sport spesso cantato ricorrendo alla peggior retorica nazionalistica e militaresca, qualche voce dissonante, capace di ritagliarsi spazi di intervento pubblico anziché limitarsi a parlare alla riserva, c’è stata. Gian Paolo Ormezzano è stata una di queste voci libere e pensanti.
Passando in rassegna gli articoli di sport comparsi sulla stampa italiana tra la fine degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo per la stesura del libro Storie di sport e di politica (2018) abbiamo contattato Ormezzano per discutere con lui della stampa sportiva dell’epoca, ma forse lo abbiamo voluto incontrare ancora di più per il desiderio di conoscerlo. Invitati a raggiungerlo nella sua abitazione torinese, abbiamo così avuto modo di passare una giornata con lui letteralmente rapiti dai suoi racconti di calcio e ciclismo narrati e vissuti con genuina passione, come spetta allo sport, ma anche come eventi non slegati dal mondo che li circonda, cosa, quest’ultima, che lo ha differenziato da tanti suoi colleghi.
Tra i tanti aneddoti su Coppi, a cui era tanto legato, e sulla sua genuina e indissolubile fede granata, nel corso di quel pomeriggio Gian Paolo ha a un certo punto estratto la sua invidiabile quanto logora rubrica telefonica cartacea e ci ha regalato una telefonata a Gianni Minà, suo fraterno amico, oltre alla promessa di stendere la prefazione al nostro volume, che poi ci ha inviato nel giro di qualche giorno, cosa di cui andiamo particolarmente fieri.
Ricordiamo Gian Paolo attraverso un breve stralcio derivato dal nostro libro (pp. 195-197) che racconta un episodio forse poco noto rispetto alle più conosciute vicende della Coppa Davis in Cile e dei mondiali di calcio nell’Argentina dei militari in cui era davvero impossibile guardare allo sport come se attorno ad esso non stesse succedendo nulla.
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Nel panorama della stampa sportiva, si distingue la posizione di «Tuttosport». Il quotidiano torinese diretto da Gian Paolo Ormezzano, con una scelta controcorrente rispetto alle testate specializzate, decide di non chiudere il giornale in una dimensione esclusivamente sportiva, cerca di promuovere un modo di fare giornalismo meno improntato all’evasione e più all’indagine della realtà sociale, a partire dal contesto sportivo, e invita i redattori a misurare il linguaggio, evitando toni enfatici e retorici.
La nuova impostazione del quotidiano viene assunta in prossimità degli eventi spagnoli; all’indomani dell’assassinio dei cinque antifranchisti, Ormezzano scrive un corsivo intitolato “Morire a Madrid”.
Morire a Madrid
Di recente “Amnesty International” ha denunciato che in centosette paesi del mondo, inclusa l’Italia, c’è gente in carcere per reati d’opinione, per colpe politiche, con processi troppo sommari o addirittura senza processi. Si va dalla repressione più spiccata al bavaglio ricamato. Nella geografia turpe c’è ogni continente, ogni punto cardinale, ogni regime. Si muore di garrota, si muore di manicomio, in fretta o lentamente. Si muore in piccole celle ed in immensi lager, di colpo alla nuca e di tortura. Eventi macroscopici, come quello di Madrid “favoriscono” l’accesso allo sdegno. Stare indietro, stare fuori, e poi magari predicare, nel nome dello sport, una migliore salute globale dell’uomo, è roba da sporchi farisei.
Gian Paolo Ormezzano [«Tuttosport», 27 settembre 1975]
L’articolo, e in generale la linea editoriale proposta da Ormezzano, suscita tra i lettori reazioni contrastanti: nella rubrica delle lettere alcuni dichiarano che non compreranno più il giornale, perché la stampa sportiva “non deve occuparsi di politica”, altri invece apprezzano le aperture del quotidiano che continua a seguire le vicende spagnole e le sue ripercussioni sul piano politico-sportivo.
Con un’altra scelta inusuale, «Tuttosport» pubblica un dibattito interno alla redazione sull’ipotesi che la Lazio non scenda in campo contro il Barcellona. Le posizioni spaziano da chi esprime una posizione favorevole per motivi politici, a chi ribadisce la tradizionale funzione unificatrice e conciliatrice dello sport, o propone altre soluzioni.
Si deve o no giocare Lazio-Barcellona?
Mario Bardi. Lazio-Barcellona s’ha da fare. […] Lo sport deve unire, non dividere, e deve essere d’esempio a un mondo che lo sport discredita ma che dallo sport avrebbe tanto da imparare. Piuttosto sia consentito un suggerimento. L’UEFA si renda promotrice di questa iniziativa: un minuto di silenzio su tutti i campi d’Europa, giochino o no le squadre spagnole. Sarebbe, a mio giudizio, la migliore risposta all’iniquo regime di Franco. […] Roberto Beccantini. A mio avviso Lazio-Barcellona deve essere giocata. Non credo nello sport avulso dalla politica, ma credo nella funzione conciliante, riparatrice dello sport. Personalmente ricorrerei piuttosto a proteste ufficiali durante la partita stessa […]. Al mondo ci sono già tante e troppe cose grandi che separano gli uomini. Lasciamo almeno che questa piccola cosa che è lo sport continui ad unirli. […] Giglio Panza. […] Poiché credo nella democrazia e nella validità delle civili proteste, ritengo che una grande manifestazione antifranchista della popolazione romana avrebbe in Spagna e su chi in Spagna deve tornare, più presa politica che non la ricusazione di una squadra di calcio che col regime non ha niente da spartire. Dimostrando quale buon uso sappiamo fare della libertà, aiuteremo chi disperatamente si batte – come noi abbiamo fatto con la Resistenza – perché anche in Spagna la libertà ritorni. […] Oliviero Beha. […] Sfido chiunque a dimostrare che esista anche una sola ragione perché la partita si disputi, che non sia lo stretto comodo morale di chi non vuole vedere messo in bilico un certo modo rassodato di pregiudizio e di interesse. Chi spiegherà ai due giocatori spagnoli in pericolo per avere portato il lutto in campo che «è meglio, più giusto» che l’incontro abbia luogo, per non contaminare la purezza dell’idea sportiva (trappola!) con la politica che qualche volta assassina? Fulvio Bianchi. Non si deve giocare. I lavoratori della pedata devono essere allineati, soprattutto oggi, con i lavoratori europei nel boicottaggio della Spagna fascista; i calciatori romani, soltanto non giocando, «giocheranno» al fianco del popolo spagnolo, oppresso da un regime dittatoriale e colpevole di cinque barbari omicidi. Giorgio Reineri. Quarant’anni fa l’Italia si macchiò di una colpa gravissima: insieme alle truppe naziste, contribuì a uccidere la repubblica di Azana, martirizzando la Spagna. Oggi il dovere di ogni paese civile è di isolare gli assassini franchisti. Questo la si fa anche attraverso lo sport, che è un fatto di vita e di cultura. No a Lazio Barcellona, dunque, anteponendo agli interessi economici i doveri che ogni autentico democratico deve sentire […].
[«Tuttosport», 12 ottobre 1975]
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