«Competitività, innovazione e crescita. Le tre partite per noi europei»

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L’avvento di Trump sulle economie globali, la deregulation nell’energia e trasporti, le ricadute sul sistema finanziario, in termini di tassi ancora alti con una politica economica inadeguata. L’Europa adesso soffre per le crisi di Germania e Francia. La Ue dovrebbe poter esprimere il meglio dei rapporti Letta e Draghi. E l’Italia ha la fortuna di avere un sistema bancario che ha saputo reagire alle varie crisi. Tutto questo è la sintesi del pensiero di Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo dal 2013 il cui mandato in scadenza nel 2025, verrà rinnovato per la quinta volta, già docente universitario di Economia delle Imprese, membro del cda della Luiss ed economista di raffinata qualità, figura rigorosa e di prestigio del mondo economico italiano. Per questo Outlook 2025, Gros-Pietro traccia lo scenario per il prossimo anno.

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Gian Maria Gros Pietro (Ansa)

Le economie del 2025 saranno all’insegna della massima incertezza a livello globale, condivide questa previsione e qual è il rischio maggiore?

«Condivido la previsione. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha preannunciato misure protezionistiche in tema di commercio estero, limiti all’immigrazione, processi di deregolamentazione nei settori dell’energia e dei trasporti, e forse anche in parte del comparto finanziario. Non sono ancora stati precisati gli obiettivi che saranno perseguiti, ma già si sono registrate ripercussioni sul dollaro, sui tassi di interesse a lungo termine e sui valori azionari. Il mercato americano assorbe attualmente circa l’11% delle nostre esportazioni: barriere tariffarie o amministrative potrebbero ostacolarle. Seconda fonte di incertezza: il modello di sviluppo della Cina. Difficile far convivere la dipendenza dall’export con la competizione nei confronti degli Stati Uniti. E rimane da sistemare il mercato immobiliare. Terza area problematica: i focolai di guerra attivi in aree rilevanti per l’approvvigionamento di fonti energetiche. Finora non hanno causato problemi seri, ma non si possono escludere incidenti in futuro».

L’Europa è ancora disunita al suo interno, questo è un rischio?

«L’Europa è alle prese con processi di trasformazione che fatica a gestire, a causa sia dell’indebolimento dell’ordine politico che ha guidato gli ultimi decenni, sia dell’inadeguata capacità fiscale. A livello mondiale, peraltro, gli economisti si aspettano una crescita economica moderata e una inflazione normalizzata». 
Pensa che la politica dei tassi della Bce e della Fed possa condizionare più delle altre variabili geo-politiche?
«In realtà, le politiche monetarie non stanno svolgendo un ruolo guida in questa fase economica. Superata la crisi inflattiva, le banche centrali hanno adottato un atteggiamento più adattivo che proattivo. Le possiamo paragonare a un pedale acceleratore, che può mettere più o meno gas nel motore. Ma il problema è l’efficienza del motore, che va aumentata, riducendo le emissioni. E per migliorare l’efficienza occorrono politiche industriali, che appartengono, appunto, al terreno politico». 

Non serve altro, per esempio in termini di competenze?

«Sono essenziali competenze tecniche, direi di natura manageriale. Non ci si può limitare, ad esempio, a programmare, e imporre, l’abbandono di alcune tecnologie energetiche se non si programma contemporaneamente la messa punto, l’implementazione e la diffusione sul territorio delle soluzioni alternative. Un banchiere al quale venisse proposto di finanziare un piano di abbandono di una tecnologia, si preoccuperebbe di verificare in quale modo vengono realizzate le soluzioni alternative, come si distribuiscono sul territorio, con quali prezzi e con quali livelli di accettazione da parte degli utilizzatori; in assenza di che, si rifiuterebbe di finanziare il processo. La Bce non può essere considerata responsabile delle conseguenze finanziarie di decisioni politiche. Peraltro, non ha titolo né competenze per condizionare le decisioni politiche».

C’è un quadro politico europeo complesso in Francia e Germania, quali ripercussioni possono avere le situazioni di questi due Paesi?

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«Francia e Germania sono stati i pilastri tradizionali della politica economica europea, svolgendo un ruolo cruciale per gli accordi di compromesso che hanno consentito all’Unione Europea di superare le sue crisi. Le crisi politiche di Francia e Germania potrebbero frenare l’adozione di strategie economiche comuni, che sono essenziali per competere con il resto del mondo. L’Italia può svolgere un ruolo importante in tale direzione. Inoltre, abbiamo interesse a che le economie di Germania, primo mercato di sbocco del nostro export, e Francia, al terzo posto dopo Germania e Stati Uniti, funzionino a pieno ritmo. Servono esecutivi in grado di prendere decisioni impegnative e con orizzonti operativi che vadano ben oltre le scadenze elettorali immediate».

La presidenza di Donald Trump negli Usa con il suo programma politico, come influenzerà le relazioni economiche con la Cina e l’Europa?

«Gli Stati Uniti hanno da tempo una politica di contenimento della Cina che ha obiettivi strategici, non soltanto economici. Penso che questa politica sarà confermata dalla prossima amministrazione. In ambito economico, potrebbe implicare l’innalzamento di ulteriori barriere commerciali e più derisking, cioè sforzi per ridurre la dipendenza dalla produzione cinese».

Questo atteggiamento quali conseguenze potrebbe avere in Europa? 

«Per l’Europa, il rischio è che Trump continui a leggere il disavanzo nel commercio bilaterale tra Stati Uniti ed Europa come conseguenza di politiche commerciali sleali, invece che di un di eccesso di domanda negli Stati Uniti, e che ciò conduca a restrizioni commerciali, con danno reciproco. Ma spazi per accordi esistono, a partire dall’acquisto di gas da parte dell’Europa, e della comune forte spinta verso le tecnologie dell’informatica più avanzate».

L’evolversi della situazione mediorientale, che si aggiunge alla guerra Russia-Ucraina di cui non si vede soluzione, è un altro focolaio che potrebbe compromettere lo sviluppo dell’economia mondiale?

«Finora, si è rivelata corretta la previsione che la crisi mediorientale non avrebbe compromesso l’offerta di combustibili fossili proveniente dal Golfo Persico. Quanto alla guerra Russia-Ucraina, essa ha posto in evidenza il divario di capacità militare tra Russia ed Europa».

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È stato da poco formato il governo europeo, quali potranno essere le politiche economiche fondamentali?

«La Commissione Europea ha individuato una serie di priorità strategiche. In ambito economico, si parla di rilancio della competitività delle imprese, di promozione dell’innovazione e dell’impresa e di rilancio delle transizioni verde e digitale. Il rapporto Letta ha proposto di migliorare l’integrazione del mercato unico in alcuni ambiti, quali infrastrutture energetiche e mercati dei capitali, ma anche di creare un habitat normativo più favorevole all’innovazione in campo digitale».

Visto che ha citato il rapporto Letta, c’è anche il rapporto Draghi sulla competitività che ha alimentato il dibattito in termini di innovazioni, che dice?

«Il rapporto Draghi si è focalizzato su come colmare il gap di innovazione rispetto a Stati Uniti e Cina. Nell’assetto istituzionale dell’Unione, sono i governi che decidono che cosa fare e come farlo, non la Commissione. Dunque, non possiamo del tutto escludere lo scenario in cui la debolezza dei governi o la paralisi dovuta al ciclo elettorale impediscano all’UE di imprimere lo slancio necessario in questa fase storica». 

Le lezioni del passato possono darci insegnamenti su come oltrepassare gli ostacoli?

«Però, in passato più volte situazioni di crisi hanno indotto gli Stati membri a superare divisioni e ritrosie, generando cambiamenti radicali nella capacità di riforma. Confido che possa accadere lo stesso anche questa volta. Come indicato da Carlo Messina, il segnale migliore che potremmo dare come Unione Europea sarebbe quello di concordare un piano che recepisca aspetti importanti dei rapporti Letta e Draghi, finanziando almeno una parte degli interventi che richiedano fondi pubblici con emissioni comuni di debito, almeno per i progetti aventi una dimensione transfrontaliera». 

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Il sistema bancario italiano e quello europeo si stanno rivelando particolarmente effervescenti, in questo ultimo periodo dell’anno, in termini di possibili operazioni di aggregazione. Che giudizio dà a queste ultime operazioni?

«L’industria bancaria italiana ha saputo reagire alla crisi finanziaria, alla pandemia, alla guerra in Ucraina. Per assorbire le perdite e smaltire i crediti deteriorati si sono impegnati gli azionisti, con ricapitalizzazioni, e i bancari, con notevoli miglioramenti gestionali. Oggi, in termini di capitalizzazione di Borsa, quattro banche si trovano al vertice dell’eurozona, sopra o intorno ai 60 miliardi di euro: Santander, Intesa Sanpaolo, Bnp, Unicredit. Solo l’Italia conta due banche in questa classifica di vertice. E soltanto in Italia sono presenti in forze, con proprie organizzazioni stabili, le banche straniere di quel vertice, cui si aggiunge il Crédit Agricole, che a quel vertice appartiene, se non per capitalizzazione di Borsa, certamente per asset. Il mercato italiano è quindi oggi, tra quelli dei grandi Paesi europei, certamente il più aperto alla competizione, a tutto vantaggio della clientela».

C’è da essere soddisfatti? 

«Sì, se guardiamo al percorso fatto. No, se guardiamo al futuro. L’industria bancaria dell’eurozona è fatta di nani se la si confronta con le banche americane e cinesi, o con la competizione crescente delle bigtech. Le tecnologie informatiche richiedono enormi investimenti che comportano rilevanti economie di scala. Essere piccoli significa non essere in grado di offrire servizi adeguati, o dover scaricare sulla clientela costi unitari non competitivi. Per crescere rapidamente, l’unica strada è quella degli accorpamenti, anche cross-border».

 
Intesa Sanpaolo ha portato a segno con successo alcune fusioni. Avete l’esperienza giusta? 

«Noi di Intesa Sanpaolo abbiamo fatto la fusione tra Intesa e Sanpaolo-Imi, poi con le banche venete, infine con Ubi. Per andare oltre, dovremmo poter realizzare sinergie in altri Paesi, ma la realtà europea è che le fusioni transfrontaliere incontrano ostacoli che le rendono impossibili o non convenienti. È una situazione che va assolutamente e rapidamente superata, altrimenti l’Europa non sarà in grado di finanziare gli 800 miliardi all’anno di investimenti che si stima occorrano per realizzare le transizioni necessarie, né sapremmo difendere e utilizzare bene i risparmi degli europei, che defluirebbero verso altri continenti, come in parte già avviene».

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