Torino ci riprova col «city branding». I flop precedenti non hanno insegnato nulla, tra anglismi e pestilenze

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di
Gabriele Ferraris

Il Comune ha pubblicato il bando(di soli 460 mila euro)per individuare un’agenzia alla quale affidare il «servizio di city branding». Breve storia triste dei tentativi decennali di partorire un marchio internazionale…

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L’hanno fatto di nuovo. Il Comune ha pubblicato il bando internazionale per individuare un’agenzia alla quale affidare il «servizio di city branding»: trattasi di creare un «nuovo look» della città tramite «attività di consultazione, posizionamento, ideazione e realizzazione del brand, e campagna di lancio, comunicazione, monitoraggio e consolidamento». Tutto per il modico prezzo di 416 mila euro. Come al solito, vasto programma e pochi soldi. Ma anche a prescindere dall’entità dell’investimento (calcolate che una pur modesta programmazione di spot su una tv nazionale costa, minimo, fra i 100 e i 200 mila euro), ciò che soprattutto induce a paventare disastri è la lacrimevole sequela di velleitarie «brandizzazioni» che ci perseguitano fin dai tempi del «look of the city» olimpico, con quel celebre «Passion lives here» che tanto divertì gli ospiti anglofoni, e forse ne solleticò eccessivamente le aspettative.

Si sa: se vuoi brandizzare l’inglese devi usare, sta scritto nel manuale delle giovani marmotte della comunicazione. Così per le prime Atp ci beccammo il geniale «Torino So Much of Everything» commissionato dall’Appendino e pagato dal successore Lo Russo. «Una storia ha bisogno di immagini, di emozioni», commentò all’epoca un imbarazzato assessore presentando il presunto «brand della città»: un enigmatico logo con una T seguita dal segno dell’infinito che, spiegarono i cervelloni anglisti, «sta per l’appunto a significare che a Torino c’è so much of everything». E lo dicevano senza che gli scappasse da ridere, i so much furbacchioni.




















































Con le lingue straniere i nostri maghi della comunicazione ci azzeccano poco. Ai tempi dell’Expo milanese del 2015, nella speranza di raccogliere qualche briciola di turismo, pagammo denaro sonante il «piano di comunicazione integrato per far conoscere i contenuti della nostra offerta territoriale»: tale «piano» – sdottoreggiavano i sapienti con orgoglio degno di miglior causa – «si avvale di due importanti strumenti: la campagna “Torino e Piemonte dove ogni viaggio è un evento” e un nuovo portale di promozione turistica degli eventi tradotto in 4 lingue, inglese, francese, tedesco e spagnolo. Il tutto caratterizzato dal claim “We Love Emotions in Piemonte, in Torino”». Nei fatti la «campagna» consisteva in una modesta brochure zeppa di errori e omissioni; quanto al sito multilingue, era evidentemente realizzato con il traduttore di Totò (noio volevons savuar), mentre interi periodi erano lasciati spicciamente in italiano.

Eppure i nostri tenaci eroi non si danno mai per vinti. «Annunciare i tanti appuntamenti che faranno del capoluogo e della regione piemontese un vero e proprio palcoscenico… lanciare il messaggio che Torino e il Piemonte non solo ospitano ma sono di per sé uno “spettacolo” da non perdere e da visitare»: così esordiva, nell’aprile 2022, il trionfale proclama con cui il Comune presentava la sua comunicazione in occasione di Eurovision. Il claim escogitato dai cervelloni di turno era «Torino, che spettacolo!» e ricalcava, con titanico sforzo di fantasia, il «Ciak! Piemonte che spettacolo» usato l’anno prima per un’iniziativa della Film Commission.

A proposito di cinema: la medaglia d’oro degli sfigati tentativi di «brandizzazione» spetta senz’altro a «Torino Città del Cinema», lanciato a fine 2019 per celebrare il ventennale del Museo del Cinema e della Film Commission. L’iniziativa di per sé valeva poco, e la malasorte fece il resto. A febbraio 2020 anche sulla «Città del Cinema» si abbatté la più classica delle catastrofi bibliche: la pestilenza. Ma con un crudele senso dell’ironia insolito nelle catastrofi bibliche, perché il Covid impediva ogni contatto fisico, figurarsi le effusioni evocate dai mesti manifesti che tappezzavano la città con l’ennesimo claim portasgarro: «Al cinema ci si bacia».

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