Bisogna invece prendere atto, in modo chiaro e definitivo, che il nostro calcio ha un’altra grande malata: la Juventus. Se fino a ieri sera potevano esserci dubbi – i tanti, troppi pareggi bianconeri erano in qualche misura compensati dall’assenza di sconfitte – adesso le incertezze sono finite: la questione Motta è aperta. Thiago ha avuto tempo per costruire la sua squadra ma ormai lavora con questo gruppo da quasi sei mesi e quasi niente funziona come dovrebbe.
Gli infortuni lo hanno condizionato, per questo è stato giusto attendere, però nel calcio la pazienza non è e non può essere infinita, soprattutto se alleni uno dei club più prestigiosi d’Europa. Il volto incredulo, quasi spaurito del tecnico bianconero nel finale di partita, mentre il Milan gestiva con entusiasmo e ferocia un 2-1 inimmaginabile fino a pochi minuti prima, diceva tutto: le sue certezze si stanno pian piano sgretolando, la sua sicurezza vacilla. La Juve continua a buttare incontri che sembrano vinti. È successo prima di Capodanno contro la Fiorentina, quando si è fatta rimontare due volte raccogliendo l’undicesimo pareggio del campionato; è capitato di nuovo a Riad, quando è riuscita addirittura a farsi scavalcare dal Milan in cinque minuti.
Sono episodi che vanno in rotta di collisione con la storia, perché la storia dice che la Juve è esattamente il contrario di questa: ha un’anima, ha cattiveria, ha concretezza, è perfino spietata. Magari non è bella – ricordiamo poche Juventus che ci abbiano meravigliato per la qualità del gioco, ma alla fine, in un modo o in un altro, ottiene quasi sempre il miglior risultato possibile in quel determinato momento. La squadra di Motta non è così, anzi. Giochicchia, a momenti anche in modo piacevole, e applica principi tattici apprezzabili, però ha due limiti imperdonabili e fatali: non chiude le partite quando le ha in pugno e non riesce a gestire il vantaggio minimo. Mettendo assieme difetti così, vincere diventa un’impresa anche quando dovrebbe essere la cosa più normale del mondo. In questo modo sono arrivati i pareggi e, ora, anche una sconfitta (è la seconda della stagione dopo quella con lo Stoccarda, la prima contro un’avversaria italiana). Si discuterà molto della sostituzione di Vlahovic, una scelta che ha privato la Juve del suo punto di riferimento offensivo, ma il problema a Riad non è stato solo questo: è stata l’assenza di rabbia, convinzione, mentalità vincente.
Il Milan non ha giocato una gara memorabile, né potevamo aspettarci che lo facesse. Però ha avuto il merito di rimanere dentro la partita sia con il risultato – un gol di scarto lo puoi sempre recuperare – sia con la testa. Conceiçao in pochi giorni ha provato a portare alcune delle sue idee di calcio all’interno della nuova squadra: pressing asfissiante (almeno a inizio gara), modulo rivisto (4-3-3), recupero di calciatori che Fonseca aveva messo da parte (Tomori su tutti). Il cambiamento principale che ci è sembrato di notare nel nuovo Milan, però, è stato caratteriale: i rossoneri hanno messo in campo quella voglia di vincere che gli avversari non hanno avuto. Il cambio di allenatore non ha trasformato Theo Hernandez, a conferma che l’involuzione del francese è personale e non dipende da chi siede in panchina: l’errore sul gol di Yildiz è imperdonabile, la rete fallita nella ripresa è un segnale di scarsissima serenità. Nonostante Theo, il Milan non ha mollato la Juve e ha saputo beneficiare di due clamorosi passaggi a vuoto dei bianconeri: l’inspiegabile fallo da rigore commesso da Locatelli e l’uscita fuori tempo di Di Gregorio. Non basteranno grinta e voglia per competere con l’Inter: occorrerà molto di più. Ma Conceiçao non poteva cominciare meglio di così, con un successo contro una grande rivale. Lunedì nessuno pretenderà che il Milan vinca. E anche questo potrebbe diventare un bel vantaggio.
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