Buoni propositi Il 2024 è stato l’anno di riposo e oblio della moda – ArtesTV

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Dallo spopolare dei “core” al declino dell’influencer marketing, alla sfiducia nel futuro che guarda (troppo) agli immaginari del passato. Per invertire la rotta, nel 2025 sarà necessario trovare risposte nuove, per portare senso e prosperità a un fashion system stanco. Incapace di guardare al futuro, animata dal desiderio di ibernarsi, sfuggendo ai molteplici mali del mondo – un po’ come la protagonista del libro di Ottessa Moshfegh, che si isolava in una fredda New York imbottendosi di psicofarmaci con l’aiuto di un compiacente psichiatra –, la moda nel 2024 ha rinunciato a cercare risposte, chiudendosi nei suoi atelier dorati raggiungibili solo dall’un per cento dei clienti mondiali (gli ultra ricchi), lasciando fuori tutti gli altri. Quanto questa tattica sia stata intelligente, o anche solo utile, lo dicono i dati con un calo di fatturati; calo di rilevanza; perdita di consumatori nell’alto di gamma (cinquanta milioni di consumatori secondo il Luxury Goods Worldwide Market Study Altagamma-Bain); conseguenze pagate spesso proprio dalla filiera italiana, quella che costruisce il Made in Italy, di cui molto ci vantiamo ma che così poco conosciamo (si usano più ammortizzatori sociali che nell’anno precedente, il governo ha esteso a dodici settimane la cassa integrazione di cui possono fruire anche le piccole e medie imprese del settore in Italia); alienazione dei clienti aspirazionali che, nelle casse dei brand contano più di quanto gli stessi brand si immaginassero (secondo lo studio di McKinsey diffuso ad aprile 2024 i consumatori aspirazionali del lusso acquistano prodotti per un valore pari al diciotto per cento del valore del mercato della moda e al cinquanta per cento del mercato del lusso). Tutte condizioni che invece hanno permesso ai giganti del fast fashion di essere assai simili alla didascalia di quel meme popolare a livello mondiale già quattro anni fa, che ritraeva un uomo intento a rilassarsi in un laghetto balneabile, definendolo “unbothered, moisturized, happy, in my lane, focused, flourishing”.

Se i prodotti del fashion system sono stati riservati a pochi, il suo spettacolo, tra sfilate ed eventi speciali, campagne globali e momenti virali – dal grande ritorno di Victoria’s Secrets riuscito per metà, alla sfilata già entrata nella storia di Maison Margiela Artisanal firmata da Galliano –, è andato in scena democraticamente sui social. Il problema è che, nel tentativo di rendersi comprensibile e attraente agli occhi di tutti (o almeno, tutti quelli dotati di una connessione), il gusto estetico si è generalmente appiattito, livellando le storie singolari che si celano dietro ogni brand, nell’inseguimento di macro e micro trend che sono durati molto meno di una stagione (ne avevamo parlato in questa puntata del podcast).

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Nell’incertezza dei “core” che duravano l’espace d’un matin – spolpati dai social fino a consumarsi in pochi mesi, come nel caso del Brat di Charli XCX, utilizzato persino dalle campagne social a favore del partito democratico alla presidenza statunitense, Kamala Harris –, i più giovani hanno iniziato a interrogarsi con un certo grado di angoscia sulla ricerca di uno stile personale. Se in un dato tempo, nel guardaroba vale tutto e il contrario di tutto, a fare la differenza, in effetti, può essere avere una personalità, più che un portafoglio capace di essere al passo con tutte le micro (anche per spessore) tendenze che travolgono l’internet senza poi lasciare dietro di sé alcuna traccia rilevante.

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Il discorso sul sovra-consumo – che va di pari passo con quello della sovrapproduzione, dividendo in egual modo le colpe tra produttori e consumatori – e di conseguenza sulla sostenibilità, sta molto a cuore agli utenti della Gen Z, quelli che hanno conosciuto ed esperito la moda e la creazione di un guardaroba esclusivamente attraverso lo stimolo di un cellulare: diventa così poco credibile un armadio pieno di abiti da indossare per un singolo post su Ig o TikTok, come ha ammesso di aver fatto l’influencer simbolo della generazione, Emma Chamberlain nel video Youtube “I got rid of (almost) everything” che ha ad oggi tre milioni di visualizzazioni. Con un certo grado di contrizione, Chamberlain si è detta pentita di molte cose acquistate e definite come “statement pieces” (a intendere certi capi o accessori talmente distintivi da avere un’implicita data di scadenza, nonostante i costi elevati), e ha ripromesso a se stessa e ai suoi milioni di follower una pulizia stilistica maggiore, animata da un nuovo spirito à la Marie Kondo. Se queste discussioni sembrano nuove – e probabilmente, sui social stanno avvenendo per la prima volta – è perché mai come oggi le figure alle quali i giovani sono stati abituati a guardare per cercare ispirazione si mostrano in tutta la loro artificiosa fallacia. Da una parte ci sono le star: Rachel Tashjan ha scritto sul Washington Post un lungo articolo declamando la morte del celebrity style. Se Charli XCX è brat abbastanza per salire sul palco del Saturday night live ed esibirsi con una Jackie di Gucci sotto il braccio – un accessorio che di certo non era necessario e che ha ricordato ai più anziani di un’altra performer che non saliva su un palco senza una borsetta, la signora Coriandoli – il resto dei rich and famous di Hollywood è talmente avvezzo a servirsi di uno stylist che è difficile distinguere tra chi sia davvero dotato di un occhio peculiare per la moda e chi, semplicemente, cerca di trarre il maggiore beneficio possibile dalle munifiche maison che desiderano solo essere indossate da questa e da quella attrice.

Finiti i tempi nei quali una specifica figura era sinonimo di un singolo brand – in tempi recenti è stata Charlize Theron con il profumo J’adore di Dior, sostituita dopo venticinque anni da Rihanna – tutti sono testimonial di tutto, nello stesso momento, sono nei front row di tutte le sfilate (a volte sono pagati per farlo, altre no) e dichiarano uguale amore e dedizione a tutti i creativi dell’agone della moda. L’utilizzo dei celebrity stylist più famosi – che divengono celebrità a loro volta – è incisivo al punto di essere ridondante. Un esempio su tutti è quello di Zendaya (seguita da Law Roach), passata dalla fase sci-fi per “Dune” a quella tennis-core per “Challengers”: in entrambi i casi lo stylist ha spesso attinto ad outfit di grandi brand, scavando nei loro archivi. E se questa strategia non è solo di Roach, ma di molti suoi colleghi, recuperare ensemble iconici degli anni passati mostra solo la siderale distanza tra i designer di ieri, che si sforzavano, a volte sbagliando, di immaginare un futuro, e quelli di oggi, troppo terrorizzati dalle brutture che toccano il pianeta Terra per poter avanzare una qualunque proposizione, chiusi in una capsula spaziale spedita in un universo parallelo dove nulla cambia, poco succede e nulla si rivoluziona.whatsapp image 2025 01 03 at 13.33.17In altri casi, invece, la creazione di look ad hoc (come quelli di Loewe usati sempre da Zendaya sui red carpet di “Challengers”) sconfinano nella mise en scène, più ballo in maschera a tema che occasione da red carpet dove, banalmente, indossare un vestito – elegante o meno, originale o meno – che poi tutte le altre donne del pianeta vorranno avere, cercandolo nella boutique dello specifico brand o nelle sue iterazioni più mass market. Una forbice ampia, che va dal jeans e giubbotto di pelle di Winona Ryder alla prima di “The committments” al vestito con le spille da balia firmato da Versace indossato da Elizabeth Hurley alla prima di “Quattro matrimoni e un funerale”, e che però oggi è bellamente ignorata, nell’illusione che sia più importante creare un momento virale sui social. Se le celebrity – e la loro capacità di ispirare le masse – non sono in grande forma, neanche gli influencer si sentono troppo bene. Nel classico “The state of fashion”, documento presentato a fine anno da Bof e da McKinsey, che racconta lo stato dell’arte della moda, la parola “influencer” è usata per la prima volta a pagina ventinove (nello specifico, per raccontare della loro crescente rilevanza nel mercato delle economie emergenti dell’APAC, cioè dell’area Asia-Pacifica). Questo non vuol dire che le maison abbiano intenzione di investire meno nel mercato dell’influencer marketing, ancora oggi assai remunerativo per chi ne fa parte, ma che semplicemente a quello sforzo economico non corrisponde più la stessa adorante e acritica risposta del passato. A prescindere dai pandori e dalle operazioni fumose di beneficenza, la credibilità di queste figure è diminuita parallelamente al loro attaccamento al reale: la narrazione delle loro vite personali, copiata e incollata dal monomito già studiato dall’antropologo Edward Burnett Taylor – anche detto più poeticamente “il viaggio dell’eroe” – mostra le crepe e gli acciacchi, ed è consumato da una coazione a ripetere che ha perso di freschezza. Quante sfilate si possono vedere trovandole tutte, ugualmente “amazing”? Quante diverse famiglie si possono avere – in occasione di regali e prestiti gli influencer ringraziano sempre questa o quella “family”, a intendere i diversi brand, da Fendi, a Prada, a Chanel, sottendendo un rapporto di intima connessione con gli operatori del settore – prima che ci si chieda se il fashion system abbia riportato in auge la poligamia? Quanti vestiti si possono indossare in un solo giorno, non risultando credibile e autentico rispetto a se stessi in neanche uno? Un distaccamento dal contemporaneo che era già noto prima del 2024, e che infatti ha portato alla proliferazione di nuove categorie di attori, che si discostano dalla genia classica degli influencer, pur appartenendo alla stessa famiglia. Ci sono i “genuinfluencer”, quelli che si dedicano a un settore specifico, e non hanno ambizione o desiderio di causare un desiderio di emulazione in quanti li guardano; così come figure a metà tra l’influencer e il giornalista, cioè gli autoproclamati “fashion commentator”. Se da una parte il giornalismo di moda avrebbe disperatamente bisogno di aria fresca e prospettive diverse, con il passare del tempo e l’accrescimento dei follower, nella maggior parte dei casi queste figure sono state assorbite pienamente dal fashion system, proprio tramite gli stessi strumenti usati storicamente per “ammansire” la critica di settore: privilegi esclusivi, front-row, cadeaux variegati, facendo loro compiere la parabola di cui già Luciano Ligabue vaticinava in “Happy Hour”: «nasci incendiario, muori pompiere».

Una discussione a parte meritano tutti quei profili che sublimano una certa tendenza alla domesticità, alla creazione di elaborati pasti per famiglie numerose, evitando con un certo disgusto qualunque semi-preparato di origine industriale: si parla qui delle Trad Wife, intese come mogli tradizionali, appartenenti a diversi credi religiosi, come Nara Smith, modella, madre di tre bambini avuti dal modello Lucky Blue Smith. Smith ha fondato la sua presenza social su format video nei quali viene ripresa nella cucina di famiglia, intenta a preparare succulenti manicaretti per la prole, con indosso vestiti da sera. Il professor Neil Shyminsky, insegnante di Inglese di Sudbury (Canada) ha fatto notare in un video Instagram come questa metodologia non voglia tanto ribadire dei ruoli di genere spesso desueti – accusa che ha provocato diverse critiche social a Smith e a tutte le altre protagoniste di questo filone – quanto segnalare l’appartenenza a una classe sociale superiore, la stessa di cui parlava Thorstein Veblen ne La teoria de la classe agiata, del 1899.

Proprio perché Smith appartiene a una classe agiata che non deve in alcun modo contribuire al benessere economico della società con un operato di qualunque tipo – e in effetti mai la si vede, sui social, impegnata in compiti domestici altri, meno glamorous, e che comunque riempiono la vita e la giornata di chiunque si dedichi a tempo pieno alla gestione della casa – , Shyminksy vede nei suoi video una performance atta a segnalare il suo valore e il suo status nella comunità, più che un’adesione a degli standard di genere oggi fortemente discussi. Sarà forse per questo che i brand, da sempre alla ricerca di testimonial impeccabili e apparentemente indiscutibili da vestire e rendere protagonisti delle proprie campagne, ultimamente stanno guardando molto al mondo dello sport (complici anche le Olimpiadi del 2024): se il tennis è la nuova ossessione delle maison, con Jannik Sinner già assoldato con grande tempismo da Gucci, oggi si guarda molto anche al basket femminile, dove la rookie Caitlin Clark è stata la prima cestista a presentarsi a un evento ufficiale vestita in Prada (alla questione sport femminile e moda avevamo dedicato un’intera puntata del podcast).

Testimonial a parte, è evidente – date le condizioni difficilissime del mercato – un’incertezza sul futuro, che si riflette di conseguenza in una celebrazione del passato, come nella sfilata di Maison Margiela Artisanal firmata da John Galliano, che ha convinto critici e utenti di ogni età. Chi c’era negli anni Novanta e i primi Duemila delle sue sfilate per Dior ha rivissuto e celebrato i fasti del passato; chi invece è nato dopo ha potuto per la prima volta partecipare – anche se solo tramite lo schermo di un social – allo spettacolo della moda a cui si era abituati nei decenni precedenti, quelli nei quali i conglomerati finanziari non avevano depauperato e svuotato i brand di significato, alla ricerca spasmodica di profitti e dividendi sempre maggiori. Purtroppo, si è però trattato di un momento isolato, reso possibile grazie anche alla visione di un imprenditore come Renzo Rosso, proprietario di OTB, a cui non ha fatto seguito nessuna rivoluzione: i tempi sono cambiati, nessuno può più permettersi un anno di tempo – quello che si è preso Galliano per mettere a punto la collezione – per la produzione di uno show di haute couture.

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E infatti, forse consapevole dell’impossibilità di ripetersi a quei livelli, Galliano è stato uno degli ultimi designer a lasciare lo scranno di direttore creativo, in un rimescolamento delle carte che ha portato Matthieu Blazy da Chanel e Louise Trotter da Bottega Veneta, solo per citarne alcuni. Il gioco delle sedie è da sempre una strategia adottata dalle maison per ridare freschezza a un brand le cui performance economiche stagnano, sperando che una nuova figura apicale possa portare hype e, nel migliore dei casi, un innalzamento dei fatturati. Il problema è però che con le dimensioni monolitiche e gargantuesche che hanno assunto i brand oggi, così come il moltiplicarsi delle figure professionali presenti al loro interno, c’è poco spazio di manovra per un direttore creativo che deve trovare un compromesso tra il suo portato stilistico e le necessità di merchandiser, dei direttori dei negozi monomarca, dei Cfo e dei Ceo. Se per tutto l’anno si sono infine protratte le polemiche – sacrosante – che richiedono una maggiore presenza di donne e minoranze nei ruoli di potere, sia come direttori creativi che come CEO, non sembra che molto sia destinato a cambiare nel 2025. Alle donne, nello specifico, si chiede di essere efficaci sul mercato, ma anche di essere credibili come artiste, laddove per gli uomini basta rispondere a una sola di queste esigenze per essere ritenuti meritevoli di occupare posti di rilievo: se Francesca Bellettini, vice direttrice generale di Kering e responsabile dello sviluppo delle Maison, è ancora un caso più unico che raro – forse per via del suo curriculum inattaccabile e dell’acume del quale è stata capace, senza mai sbagliare un passo in tutta la sua carriera ad oggi – le critiche e il giubilo che hanno accolto la dipartita di Virginie Viard da Chanel dicono molto su un mondo, quello della moda, che è stato creato per le donne ma che è pensato, e agito, ancora, con schemi abbastanza maschilisti in mente. Virginie Viard non è stata forse all’altezza del lavoro del predecessore, Karl Lagerfeld, ma i ricavati di Chanel sono rimasti invariabilmente positivi, quando non sono cresciuti (grazie anche all’aumento dei prezzi delle desideratissime borse del brand).

In maniera molto poco sorprendente, in questi giorni, si parla molto di un’altra donna che potrebbe essere sostituita: si parla qui di Donatella Versace, il cui contratto con il brand (oggi di proprietà di Capri Holdings) sarebbe in scadenza a febbraio, secondo delle speculazioni riportate dal WWD. Capri Holdings ha tentato durante lo scorso anno un accordo con Tapestry – attività bloccata dal Tribunale di Manhattan a seguito della contestazione da parte della Ftc-Federal trade commission, perché, secondo l’antitrust americana la fusione avrebbe creato un sostanziale monopolio nell’area delle borse di “lusso accessibile” (qualunque cosa lusso accessibile voglia dire). Oggi, l’ipotesi più probabile secondo i commentatori è che Capri Holdings venda i brand Versace e Jimmy Choo – che pure ha acquistato, forse senza molta contezza di cosa implichi gestire una maison – per concentrarsi su Michael Kors, il più redditizio dei brand che ha nel suo portafoglio. Sembra una situazione rischiosa nella quale nominare un nuovo direttore creativo, che si troverebbe ad agire in un gruppo che ha il solo interesse di rendere Versace un oggetto di desiderio per i prossimi potenziali acquirenti. Donatella Versace. Pensare a Versace privo di Donatella Versace, o quantomeno della sua benedizione e collaborazione nella scelta di un successore, è uno shock culturale per chi le riconosce il merito di essere stata capace di traghettare il brand in una nuova era di successi a seguito della scomparsa di suo fratello Gianni. Ma d’altronde ai conglomerati gli shock – quanto meno quelli culturali – sono sempre interessati molto poco. E forse, però, per il 2025, sarebbe più saggio cominciare a preoccuparsene: prediligere il contenuto al content, la creazione di senso al sensazionalismo: il mercato potrà anche essere cambiato, ma fare gli stessi errori degli scorsi anni, non porterà a nuovi risultati, ma solo alle stesse, cocenti, delusioni.



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