di Silvia Ognibene
L’inchiesta della Reuters sul sistema degli «audit» nel lusso
con le testimonianze di chi lavora nelle aziende conto terzi
Il sistema dei controlli lungo la catena di fornitura della pelletteria di lusso mostra falle importanti e le certificazioni che le maison di moda ottengono dagli ispettori cui si affidano non sempre riflettono la realtà. Un tema, quello degli audit, che riguarda da vicino la manifattura toscana e che è finito al centro dell’inchiesta «Inside luxury goods’ broken audit system» condotta dalla Reuters e pubblicata lo scorso 31 dicembre: parte dell’inchiesta è stata svolta tra Firenze e Prato, parlando con i lavoratori impiegati in alcune pelletterie fornitrici dei grandi brand, che hanno spiegato come la catena dei controlli sia fallace in più di un punto.
Le indagini a Milano
Ciò che la procura di Milano ha contestato ad alcuni terzisti di Armani, Dior, Alviero Martini — ponendo le aziende in amministrazione controllata — avviene anche in Toscana.
«I documenti di audit, insieme ai documenti legali, le interviste di Reuters con più di due dozzine di lavoratori del settore del lusso, auditor, responsabili della catena di approvvigionamento, fornitori, avvocati, esperti del settore, dirigenti e rappresentanti sindacali, rivelano la diffusione di controlli inefficaci sugli standard sociali e ambientali all’interno della vasta catena di approvvigionamento del lusso in Italia», scrive l’agenzia britannica nella sua inchiesta.
Il punto è che le grandi maison si affidano a ispezioni formali (i cosiddetti audit) per valutare che i subfornitori rispettino le condizioni di sicurezza e gli standard lavorativi previsti dalle norme, ma in alcuni casi le ispezioni — e le conseguenti certificazioni — ignorano problemi evidenti.
Si certifica che è tutto a posto, ma così non è.
Va chiarito che in Italia attualmente non c’è un obbligo di legge che imponga di condurre gli audit sulla catena di fornitura.
Cosa non funziona
Ma le falle nella supervisione stridono apertamente con le dichiarazioni in materia di sostenibilità e responsabilità sociale che i grandi brand fanno ai loro consumatori e investitori. Se non c’è un profilo normativo, c’è senz’altro quello reputazionale.
Parlando con i lavoratori si apprende che le falle nel sistema dei controlli ci sono eccome.
M.R. lavora in una pelletteria a conduzione cinese nell’hinterland fiorentino: attualmente ha un contratto regolare, ottenuto dopo essersi iscritto al sindacato Sudd Cobas. «Prima di iscrivermi al sindacato lavoravo 12 ore al giorno per 6 giorni. L’azienda è a conduzione cinese, conta circa 30 lavoratori tra cinesi, pakistani e afgani. Abbiamo lavorato per Céline, Balenciaga, Valentino, Dior. Attualmente produciamo solo per Valentino».
Alla domanda «venite avvisati in anticipo dei controlli»? M.R. risponde: «Sì. Il titolare della pelletteria, che è un cinese, ci dice che il tale giorno arriverà il controllo. Quel giorno sia il titolare che la moglie vengono vestiti bene, i macchinari sono in ordine, il bagno è pulito».
Quando hai parlato con gli ispettori, che cosa ti hanno chiesto? «Mi hanno chiesto quanto lavoravo, quanto venivo pagato, qual era il mio contratto».
Cosa hai risposto? «Ho risposto che lavoravo 12 ore al giorno anche se avevo un contratto di apprendistato da otto ore al giorno e che venivo pagato parzialmente in nero. Ho detto che volevo un contratto regolare. Ho detto la verità anche se il capo cinese mi aveva detto di mentire, dicendo che lavoravo 8 ore al giorno».
Dopo questo colloquio con gli ispettori, è cambiato qualcosa? «No, non è cambiato nulla».
M.R. chiarisce che la sua situazione è cambiata dopo che si è iscritto al sindacato.
Abbas, pakistano, sindacalizzato, lavora in un’altra azienda a conduzione cinese dal giugno 2020. Dice che prima producevano per Gucci, Chanel e YSL. «Adesso lavoriamo solo per Gucci. Il capo dice che c’è poco lavoro. Da settembre siamo in cassa integrazione. Tutti i dipendenti stanno a casa 2-3 giorni alla settimana perché c’è poco lavoro».
Sapete in anticipo quando vengono fatti i controlli? «Sì. I capi cinesi ci avvertono. Quando sanno che arriva il controllo, a chi ha il contratto part time dicono di andare via appena finite le ore del contratto ma di non allontanarsi dalla fabbrica perché quando gli ispettori vanno via li richiamano per tornare a lavorare. Quando veniamo assunti il capo cinese ci fa firmare un foglio in cui dice che ci consegna guanti, abiti, scarpe, mascherine ma non ce li danno: quando arrivano i controlli la segretaria ci consegna questo materiale ma quando gli ispettori vanno via lo dobbiamo riconsegnare».
Che contratto hai? «Adesso ho un contratto regolare, 8 ore al giorno per 5 giorni. Prima di iscrivermi al sindacato lavoravo 14 ore al giorno per 6 giorni alla settimana».
Hai mai parlato con gli ispettori? «Quando ancora lavoravo 12 ore al giorno ho parlato con un ispettore e ho mentito: ho detto che lavoravo otto ore al giorno perché il capo cinese mi aveva detto di dire così, altrimenti mi avrebbe mandato via, e io ho mentito per paura. Mi aveva detto ‘tu parlare bene’. Ma questo ispettore, dopo essere andato via, si è ripresentato alla fabbrica alle 21 e quando sono uscito mi ha visto. È un ispettore bravo quello. Ha capito. Dopo questo episodio il capo cinese ha trasformato il mio contratto che era un part time di 4 ore in un contratto full time di 8 ore. Ma continuavo a lavorare 12 ore. Il contratto regolare è arrivato quando mi sono iscritto al sindacato».
Attualmente tutti i lavoratori hanno contratti regolari? «No. Italiani, afgani e pakistani hanno contratti regolari. I cinesi no: adesso ci sono 3 cinesi completamente in nero e quando arrivano i controlli il capo dice loro di rimanere a casa».
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