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Quarantuno anni fa gli uomini di Santapaola assassinavano il giornalista che prima di altri denunciò la commistione tra boss, politici e imprenditori
Giuseppe Fava era giornalista, scrittore e sceneggiatore. Ma prima di tutto era un uomo di popolo, un siciliano innamorato della Sicilia. “Fava è quello che si mette la cravatta in due occasioni: al matrimonio di suo figlio e il giorno in cui lo cacciano dal Giornale del Sud”, ricorda di lui l’amico e collega Riccardo Orioles. Fava era un siciliano che conosceva a fondo la sua isola, le sue virtù, i suoi peccati e le anime che rendono questa terra unica in Europa. “Un continente dentro la nazione”, la descriveva nel libro “I Siciliani” (Cappelli Editore). “Dal fondo sulla sua antica, riconosciuta, infelicità – aggiungeva Fava nel volume stampato nell’80, ormai introvabile – il siciliano viene avanti lottando ogni giorno”. La sua lotta, Fava, la consacrò dando vita a una redazione audace formata da giovani cronisti da lui diretti e appassionati di giornalismo: I Siciliani. Un progetto editoriale senza padroni, realizzato con grandi sacrifici dopo la rottura con i proprietari del Giornale del Sud che poi lo licenziarono dal ruolo di direttore, con cui pubblicò una lunga serie di inchieste scomode contro il potere politico-affaristico-mafioso del tempo in Sicilia, in particolare a Catania. Quella rivista storica, diventata famosa in pochi mesi in tutta l’Isola arrivando a stampare undici numeri, così come la sua passione civile e quell’instancabile ribellione che dimostrava contro ogni tipo di sopruso è ciò che oggi, 41 anni dopo, ci rimane di questo indomito siciliano. Giuseppe Fava veniva assassinato da un commando di Cosa nostra il 5 gennaio del 1984. Quella sera aveva lasciato la redazione per recarsi al teatro Verga di Catania. Doveva prendere la nipote che si sarebbe esibita con “Pensaci, Giacomino!” di Pirandello. Davanti al teatro, accortosi dell’arrivo di alcuni uomini armati tentò di rifugiarsi sulla sua Renault 5 per fuggire ma i sicari furono più veloci: venne freddato con cinque proiettili di rivoltella esplosi a bruciapelo. Quando Fava esalava il suo ultimo respiro i suoi ragazzi erano ancora al lavoro in redazione. E continuarono a lavorare anche nei giorni seguenti, nonostante la rabbia e lo sconforto, pubblicando un’edizione speciale contenenti i pezzi più significativi del loro direttore. Come tanti dei delitti di mafia degli anni ’80 anche il delitto Fava conobbe l’onta perniciosa del depistaggio. Nel giallo si vedrà persino l’intervento di un poliziotto colluso con i boss, che spostò il corpo del giornalista prima ancora dell’arrivo dell’autorità giudiziaria. E per un anno sarà indagato, con l’accusa calunniosa di ‘delitto passionale’, un suo stesso collaboratore, Michele Gambino, oggi giornalista e scrittore. Per tutta la redazione l’origine del delitto era chiara fin da subito: “Il movente è di stampo mafioso”, disse uno scosso Fabio Tracuzzi (uno dei giornalisti de I Siciliani) ai microfoni della Rai nelle ore successive alla morte del suo direttore. Dopo un lunghissimo iter giudiziario, costellato da vari stop, nel 1998 venne condannato il gotha di Cosa nostra catanese nel processo “Orsa Maggiore 3”. Condannato all’ergastolo il capo mafia Nitto Santapaola, in qualità di mandante. Condannati anche i suoi gregari del clan: Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano e Maurizio Avola come esecutori materiali. Ma i veri mandanti sono tuttora impuniti. E probabilmente non giravano con coppola e lupara. Giuseppe Fava veniva assassinato perché fu il primo a denunciare la presenza della mafia a Catania e i suoi legami con i grandi imprenditori e politici. Ed è sicuramente in questi ambienti che maturò l’idea di farlo fuori. Del resto, il primo numero de I Siciliani, uscito il 22 dicembre 1982, conteneva un pezzo durissimo dal titolo “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” con cui la rivista smascherava i quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. Un’inchiesta coraggiosissima alla quale Fava già lavorava quando si trovava al Giornale del Sud, in cui sviscerava la galassia di affari sporchi intrattenuti da imprenditori e politici di Catania con la mafia catanese e in particolare con il boss Nitto Santapaola. Fava, prima di altri, aveva intuito che la mafia non poteva vivere senza la politica collusa, e viceversa. Un concetto che ribadì anche ad Enzo Biagi il 28 dicembre 1993 in quella che fu l’ultima intervista televisiva prima dell’omicidio avvenuto la settimana seguente. Alla trasmissione “Filmstory“, Giuseppe Fava lanciò un duro attacco allo Stato-mafia mettendo a nudo le collusioni mafiose ai massimi livelli in Italia. “Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi sono ministri, i mafiosi sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione. Nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze, dato questo che spesso viene trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia solo il potere, ma anche la ricchezza personale, perché è dalla ricchezza personale che deriva il potere, che ti permette di avere sempre quei 150mila voti di preferenza. La struttura della nostra politica è questa: chi non ha soldi, 150mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai! I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori”. L’intervista, purtroppo ancora attualissima, creò molto scalpore e probabilmente, insieme al suo impegno nella lotta alla mafia tra le scrivanie e le rotative de I Siciliani, le sue parole firmarono la condanna a morte. Quando Fava venne assassinato Biagi lo ricordò in diretta, il 30 gennaio 1984: “In Italia qualche volta anche la parola è diventata una colpa, si può morire perché si sa o perché si parla”.
Fava morì perché, insieme alla sua squadra di redattori, parlava e non aveva paura di farlo, nonostante fosse consapevole dei rischi, animato dalla passione per il giornalismo. “Se c’è una categoria che provoca discussione è quella dei giornalisti”, diceva. “Su questo mestiere è stato detto tutto il bene e tutto il male possibile perché è un lavoro che si esercita nei pressi del potere, che sempre tende in qualche modo a condizionarlo e perché talvolta al potere si oppone”. Pippo Fava al potere si opponeva con la forza della scrittura, camminando tra la gente, consumando la suola delle scarpe nei luoghi dove pochi altri colleghi sarebbero andati per indagare. E ci piace pensare che se fosse ancora tra noi lo avremmo trovato a investigare sulla borghesia mafiosa che ancora oggi avvelena la Sicilia (e non solo). O magari a scrivere contro le basi NATO di Niscemi e Sigonella (indimenticabile il suo articolo “Ti lascio in eredità i missili di Comiso”, scritto nell’83). O a battagliare contro la realizzazione del ponte sullo Stretto, lui che si occupò anche dello sperpero di fondi pubblici e dello sventramento dei territori. Di certo avrebbe continuato a resistere, a modo suo, per liberare la Sicilia dalla mafia, da chi la sfrutta e anche dai suoi paradossi. “In verità – scriveva – non c’è in tutta l’Europa un popolo così orgoglioso ed infelice come il popolo siciliano, che faccia tanto male a sé stesso, ma non c’è nemmeno un’anima che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza e tanta violenza, tanto amore per la vita”.
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