Tutte le guerre nel mondo per l’acqua

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La scarsità di acqua dolce è un problema sempre più critico in molte parti del mondo. L’accesso inadeguato all’acqua dolce contribuisce alle malattie trasmesse dall’acqua, alla malnutrizione, alla povertà, all’instabilità economica e politica e ai conflitti, potenzialmente violenti, tra Paesi o gruppi all’interno dei Paesi.

A questo proposito, occorre innanzitutto considerare che circa il 97,5% di tutta l’acqua del nostro pianeta è salata o inquinata. Del restante 2,5%, quasi il 70% è congelato nei ghiacciai e nelle calotte polari e meno dello 0,01% è disponibile per l’uso umano in laghi, fiumi, bacini e falde acquifere facilmente accessibili. Soprattutto, circa tre quinti dell’acqua che scorre in tutti i fiumi è condiviso da due o più Paesi – 263 bacini fluviali in 145 Paesi, dove vivono due quinti della popolazione mondiale.

Di conseguenza, molti Paesi dipendono fortemente da risorse idriche che provengono dall’esterno del loro territorio nazionale. Inoltre, un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile, un problema che probabilmente crescerà con l’aumento della popolazione mondiale, che, secondo le stime dell’Onu, passerà dagli attuali 8,2 miliardi di persone a circa 9,7 miliardi nel 2050. Questo problema diventerà particolarmente grave nei Paesi in via di sviluppo che spesso condividono una delle principali fonti di acqua dolce con altri Paesi. Non rappresenta dunque una coincidenza che i conflitti per l’acqua dolce tra tali Paesi siano in forte aumento.

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Tuttavia, pochi di questi conflitti sono sfociati nella violenza. Infatti, la scarsità d’acqua da sola è raramente la causa di conflitti armati. Tra le possibili cause scatenanti, le più ricorrenti sono generalmente le tensioni sociopolitiche, le controversie su dighe, bacini artificiali e altri progetti su larga scala, nonché quelle relative a questioni ambientali e di risorse. Ciò che preoccupa maggiormente è che l’intensità di tali tensioni, nonostante l’avvio di negoziati allo scopo di trovare soluzioni comuni, non sembra diminuire in diverse aree del mondo. Ciò dovrebbe risultare evidente dall’analisi dei quattro casi studio che abbiamo voluto trattare.

INDIA-PAKISTAN, L’ INDO ALIMENTA IL CONFLITTO TRA VECCHI NEMICI

L’Asia è particolarmente colpita dalle tensioni che ruotano attorno al controllo dell’acqua. Uno dei casi più significativi è la gestione dell’acqua del fiume Indo, che sostiene 300 milioni di persone e ha alimentato diverse tensioni tra Pakistan e India. Questo fiume rappresenta infatti una risorsa vitale per entrambi i Paesi. Non stupisce, dunque, che a partire dall’indipendenza del Pakistan (1947), l’Indo sia diventato una fonte di controversie sempre più accese.

Nel tentativo di risolvere il problema, fu stipulato il Trattato sulle acque dell’Indo (1960), che assegnava all’India i tre affluenti orientali (il Sutlesh, il Ravi e il Beas) e al Pakistan i tre occidentali (l’Indo, il Jhelum e il Chenab). Secondo il trattato, l’India, a monte del Pakistan, aveva anche il diritto a usi “non consumistici” delle acque dei fiumi occidentali. A causa della scarsità d’acqua dovuta alla siccità, il Pakistan ha recentemente protestato contro due progetti di costruzione di dighe da parte di Nuova Delhi, ovvero quelli di Kishenganga e Ratle, nello stato indiano di Jammu e Kashmir, che potenzialmente potrebbero diminuire ulteriormente la fornitura di acqua proveniente rispettivamente dallo Jhelum e dal Chenab al Pakistan.

In particolare, il Pakistan ha lamentato una violazione del trattato del 1960 sulla base del fatto che l’India stesse cercando di riottenere il controllo delle acque degli affluenti occidentali dell’Indo, nello specifico dello Jhelum e del Chenab, e che, in alcuni casi, le caratteristiche tecniche dei progetti fossero in contrasto con le disposizioni del trattato. L’India, da parte sua, si è difesa affermando che la possibilità di realizzare questi progetti, dato il loro fine “non consumistico”, fosse contemplata nel Trattato e ha negato la presenza di possibili defezioni tecniche. In merito al progetto di Kishenganga, interrotto nel 2011 a seguito delle proteste di Islamabad, una Corte arbitrale ha stabilito a dicembre 2013 che l’India potesse deviare l’acqua per la produzione di energia elettrica garantendo un flusso minimo di 9 metri cubi al secondo a valle al Pakistan. Di conseguenza, i lavori sono ripresi e la diga è stata inaugurata a maggio 2019. Tuttavia, le proteste del Pakistan circa le caratteristiche tecniche del progetto non si sono mai placate.

Un’altra fonte di tensioni è il progetto di Ratle, la cui costruzione è iniziata nel 2022 e si stima terminerà nel 2026. Allo scopo di allentare le controversie relative ai due progetti idroelettrici (concernenti per lo più questioni di natura tecnica), la richiesta iniziale del Pakistan alla Banca mondiale nel 2016 mirava a trovare una soluzione attraverso un esperto neutrale, ma in seguito Islamabad ha ritirato questa richiesta e ha cercato di ottenere un giudizio attraverso una Corte arbitrale. L’India, dal canto suo, ha insistito sul fatto che la questione dovesse essere risolta esclusivamente attraverso il procedimento dell’esperto neutrale. Il 12 dicembre 2016, la Banca mondiale ha dichiarato una pausa nei due processi separati (Corte arbitrale, sostenuta dal Pakistan, ed esperto neutrale, sostenuta dall’India) per consentire ai due Paesi di considerare modi alternativi per risolvere i loro disaccordi. Da allora, la Banca mondiale ha incoraggiato e collaborato con entrambi i Paesi per cercare una soluzione amichevole. A questo scopo, sono stati convocati diversi incontri ad alto livello e sono state discusse diverse proposte.

Tuttavia, le tensioni si sono ulteriormente acuite dopo l’agosto 2019, quando l’India ha abrogato gli articoli 370 e 35-A della sua Costituzione, che prevedevano uno status speciale per lo Stato di Jammu e Kashmir, dividendolo in due territori (Jammu e Kashmir e Ladakh). Dopo questo sviluppo, il rischio di un conflitto idrico tra India e Pakistan è aumentato, sia poiché l’India ha potuto accelerare la costruzione della diga di Ratle forte dell’abrogazione dell’autonomia precedentemente assegnata allo stato di Jammu e Kashmir, sia perché Islamabad si aspetta che Nuova Delhi possa incontrare meno opposizione interna alla realizzazione di ulteriori progetti idroelettrici nell’area in futuro.

Allo scopo di diminuire le tensioni tra i due Paesi dopo questo sviluppo ed il conseguente fallimento dei negoziati, il 6 aprile 2022, la Banca mondiale ha annunciato la sua decisione di riprendere le due cause parallele. Le tensioni sollevate dai due progetti idroelettrici, dunque, non accennano a diminuire, contribuendo ad alimentare il clima di tensione storicamente presente tra i due Paesi.

LA CINA ALLA CONQUISTA DEL MEKONG

Il sistema fluviale del Mekong, che attraversa il Sud-Est asiatico, ospita la terza popolazione ittica più diversificata al mondo. Inoltre, la produzione agricola dei Paesi attraversati dal fiume – cioè Cina, Laos, Myanmar, Vietnam, Cambogia e Thailandia – è basata principalmente sul riso, coltura che cresce nell’acqua dolce. L’eventuale scarsità di acqua potrebbe quindi significare fame e, di conseguenza, instabilità sociale.

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La Cina, in qualità di attore dominante a monte del sistema fluviale del Mekong, ha intenzione di costruire 11 dighe entro il 2030 per produrre energia idroelettrica, aumentando così la sostenibilità delle proprie fonti di approvvigionamento energetico. Tali dighe produrrebbero una grande quantità di elettricità e sarebbero vantaggiose per i Paesi limitrofi, ma potrebbero anche minacciare la sicurezza alimentare di milioni di persone situate nella sezione a valle del fiume, che è anche la più profonda. Oltre 60 milioni di persone, infatti, dipendono dalle risorse ittiche del fiume per la loro sopravvivenza. La pesca nel bacino inferiore del Mekong si stima produca ogni anno 2,3 milioni di tonnellate di pesce d’acqua dolce e 11 miliardi di dollari di entrate. Nello specifico, secondo le proiezioni, le 11 dighe cinesi tratterrebbero più di 12 trilioni di litri d’acqua, con la produzione ittica che potrebbe diminuire complessivamente di 900.000 tonnellate all’anno. Inoltre, con l’intensificarsi della siccità, il valore netto del settore della pesca nei Paesi del Mekong inferiore (Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam) potrebbe diminuire di 22,6 milioni di dollari entro il 2040.

I Paesi a valle correrebbero oltretutto il rischio di trovarsi non solo con limitate quantità di pesce ma anche con fondali vulnerabili all’ingresso di acque salate dal Mar Cinese Meridionale e quindi a rischio di salinizzazione del terreno. A complicare ulteriormente la situazione, gli effetti de El Niño hanno portato alla siccità più persistente negli ultimi cento anni nel sud-est asiatico.

Oltre all’aggravarsi del cambiamento climatico e agli annunciati progetti infrastrutturali di Pechino, altre dinamiche in corso nell’area rischiano di innescare una serie di soluzioni politiche ed industriali unilaterali, utili solo a chi le compie e a detrimento degli altri. A questo proposito, particolarmente rilevanti risultano essere sia la persistente inefficacia della Mekong River Commission, un meccanismo di cooperazione che coinvolge tutti gli Stati attraversati dal fiume, nel mediare i negoziati sulla gestione dell’acqua, che il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella regione a causa dall’aumento del consumo di acqua a monte da parte della Cina, con lo sviluppo, a partire dal 2020, della Mekong-Us Partnership, un meccanismo di cooperazione che, escludendo la Cina, molti ritengono destinato a rivaleggiare con la Mekong River Commission.

L’evoluzione di tale status quo, che potrebbe verosimilmente condurre ad una maggiore rivalità tra due diversi meccanismi di cooperazione, all’intensificazione degli effetti del cambiamento climatico ed alla realizzazione degli importanti progetti infrastrutturali di Pechino, lascia spazio a scenari regionali incerti e potenzialmente pericolosi.

EGITTO-ETIOPIA, LA DISFIDA DEL NILO

Il Nilo oltrepassa 11 Paesi e finisce per attraversare il Sudan e l’Egitto, sfociando infine nel Mar Mediterraneo. L’Egitto, in particolare, è un Paese completamente dipendente dal fiume Nilo. Riceve più del 90% dell’acqua dolce da questo fiume e l’industria e l’agricoltura ne hanno assoluto bisogno per avere qualche possibilità di sopravvivenza. Non accidentalmente, dunque, lo scontro più acceso circa la gestione delle risorse del Nilo è sorto recentemente proprio tra Egitto ed Etiopia, dove nasce il Nilo Azzurro, il più importante affluente del Nilo in termini di acqua trasportata.

L’Etiopia è un Paese di circa 130 milioni di abitanti, che nel 2011 ha messo a punto un progetto per la costruzione di una imponente diga: la Great Ethiopian Renaissance Dam (GERD). Con un investimento di circa 5 miliardi di dollari, questa diga avrebbe come obiettivo quello di risolvere il deficit energetico dell’Etiopia, trasformando il Paese in un esportatore netto di elettricità. L’inconveniente è che la diga dovrebbe essere alimentata con l’acqua del Nilo Azzurro. Il pericolo di un’evaporazione prevista di oltre 3 miliardi di metri cubi all’anno e la riduzione del flusso per riempire la riserva idrica etiope potrebbero colpire l’Egitto in modo catastrofico. A questo proposito, nel marzo 2015, a Khartoum, è stato firmato un accordo preliminare tra Egitto, Etiopia e Sudan sulla GERD e sulla ripartizione delle acque. Tale accordo ha riconosciuto il diritto dell’Etiopia di costruire la diga senza danneggiare l’approvvigionamento idrico di Sudan ed Egitto. A novembre 2015, tuttavia, la commissione di analisi indipendente per osservare le conseguenze della diga non è stata approvata perché, dopo che il Sudan ha accusato l’Egitto di aver utilizzato parte della quota idrica sudanese, è iniziata una guerra di dichiarazioni che ha messo in pericolo la fragile cooperazione tra questi Paesi. Dopo diversi anni di fallimenti nei negoziati tripartiti, questi sono stati sospesi ufficialmente ad aprile 2021 a causa delle preoccupazioni suscitate in Egitto e Sudan circa il processo di riempimento del bacino della diga iniziato nel luglio 2020.

La GERD ha cominciato a generare elettricità nel febbraio 2022 e il riempimento della sua riserva idrica è stato completato nel settembre 2023. Le negoziazioni circa la gestione del progetto sono allora riprese poiché l’Egitto ha nuovamente contestato che il riempimento “unilaterale” del bacino da parte dell’Etiopia ha violato la dichiarazione di principi fissata nell’accordo preliminare firmato dai tre Paesi nel 2015 e ha bollato l’azione dell’Etiopia come “illegale”. La suddetta dichiarazione di principi stabilisce la necessità che i tre Paesi raggiungano un accordo sulle regole di riempimento e di funzionamento della GERD prima di iniziarne il processo. Date le notevoli tensioni accumulate, è dunque complesso prevedere se la ripresa dei negoziati contribuirà effettivamente a limare le distanze o, piuttosto, ad esacerbare le frizioni esistenti.

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TURCHIA-IRAQ, PER TIGRI ED EUFRATE IN CRISI LA PARTNERSHIP COMMERCIALE

Il sistema rivierasco del Tigri e dell’Eufrate domina la politica idrica del Mashreq, ovvero la parte orientale del mondo arabo. Con un’area combinata di poco meno di 880.000 chilometri quadrati che si estende su sei Paesi, sono i due fiumi più grandi dell’Asia occidentale. Essi nascono in Turchia e attraversano l’Anatolia orientale, la Siria e l’Iraq, per poi sfociare nel Golfo Arabico nel sud-est dell’Iraq. Di recente, la diga di Ilisu sul Tigri ha scatenato tensioni geopolitiche tra Turchia, da una parte, ed Iraq e Siria dall’altra.

La diga, la cui costruzione è iniziata nel 2007, fa parte del Progetto Anatolia Sud-Orientale (GAP) della Turchia, che include 22 dighe e 19 centrali idroelettriche da realizzare lungo il Tigri e l’Eufrate, vicino ai confini turchi con Siria e Iraq. Secondo le stime, i vari progetti di costruzione di dighe e centrali idroelettriche della Turchia hanno ridotto dell’80% l’approvvigionamento idrico dell’Iraq lungo i due fiumi dal 1975 e la diga di Ilisu potrebbe ridurre le acque del Tigri in Iraq di un ulteriore 56%.

Per l’Iraq, la diga potrebbe dunque esercitare una pressione sempre maggiore sull’agricoltura e sugli habitat naturali, aumentando la desertificazione. È per questo che, da quando la diga di Ilisu è entrata in funzione nel maggio 2020, l’Iraq ha dovuto chiedere ad Ankara un flusso minimo mensile. Se da un lato la Turchia sostiene che la diga è vantaggiosa per l’Iraq in quanto consente un flusso più regolato e prevedibile sul Tigri, dall’altro i funzionari iracheni lamentano che la diga ha diminuito il flusso dell’acqua e ha aumentato l’incertezza per gli agricoltori iracheni, che ora sono soggetti ai capricci di Ankara. Un memorandum d’intesa del 2021 che chiedeva alla Turchia di fornire all’Iraq una quota equa di acqua dal Tigri e dall’Eufrate è stato un passo nella direzione della cooperazione, ma non è stato seguito da accordi più vincolanti e duraturi.

Nonostante l’accordo, inoltre, le tensioni sembrano essere aumentate. Nel 2022, il ministro delle Risorse Idriche, Mahdi Rashid al-Hamdani, ha riportato che il livello del Tigri si era abbassato del 60% rispetto al 2021 e, sempre a causa della scarsità del flusso d’acqua proveniente dalla Turchia, lo speaker della Camera dei Rappresentanti irachena, Hakim al-Zamili, ha persino minacciato di interrompere le relazioni economiche e commerciali bilaterali. Il 22 aprile 2024, dopo un’assenza perdurata 13 anni, il presidente turco Erdogan ha infine deciso di recarsi a Baghdad per una visita ufficiale, allo scopo di discutere anche delle questioni relative alla gestione dell’acqua.

Sebbene la Turchia sia da tempo il principale partner commerciale regionale dell’Iraq e ci siano segnali di una crescente cooperazione politica ed economica tra i due Paesi, ciò non toglie che le tensioni sollevate dalla gestione dell’acqua del Tigri e dell’Eufrate potrebbero contribuire ad incrinare sostanzialmente i rapporti bilaterali in futuro, specialmente considerando il prevedibile aggravarsi degli effetti del cambiamento climatico e la possibile assenza di accordi più vincolanti.

LA DIPLOMAZIA DELL’ACQUA

Questo articolo ha esplorato alcune delle crisi idriche più spinose in corso nei Paesi in via di sviluppo. I dati mostrano che l’intensità dei conflitti legati all’acqua è in aumento, sebbene la violenza associata ai sistemi e ai problemi idrici rimanga ancora l’eccezione, non la regola. La maggior parte dei problemi idrici è unica, idiosincratica e di natura locale. Di conseguenza, tali questioni richiedono soluzioni adatte alle circostanze locali. Poiché i costi dell’inazione aumentano soprattutto a causa dell’accelerazione del cambiamento climatico, i governi stanno lavorando per superare gli ostacoli all’attuazione di soluzioni comuni, sebbene i negoziati comportino spesso anche un sensibile aumento delle tensioni.

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L’acqua può essere infatti tanto una fonte di conflitto quanto uno strumento di promozione di stabilità, pace e cooperazione. In questo senso, si stanno rivelando sempre più fondamentali le attività di cosiddetta water diplomacy, ovvero di “diplomazia dell’acqua”, che, come è emerso, possono includere negoziati, meccanismi di risoluzione delle controversie, come corti arbitrali e esperti neutrali, e la creazione di piattaforme di consultazione e organizzazione di missioni congiunte di accertamento dei fatti, come la Mekong River Commission. Tuttavia, ad oggi, è complesso prevedere se l’impiego di tali canali diplomatici sarà efficace nell’ottenere i risultati sperati di maggiore pace, stabilità e cooperazione nelle aree analizzate.

(Estratto dalla rivista Start Magazine)

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