Formaggi tipici dell’Emilia-Romagna: guida ai meno famosi

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Da una terra di eccellenze agroalimentari che non si concentrano esclusivamente nella Food Valley parmense, il panorama dei formaggi dell’Emilia-Romagna è famoso nel mondo per un prodotto su tutti: il Parmigiano Reggiano. Un baluardo di storia gastronomica famoso dal Medioevo, che forse ha lasciato un po’ in ombra molte altre espressioni casearie. Questa guida ai formaggi meno noti, ma dalla storia consolidata e i risvolti organolettici interessanti, dimostra che in questa regione c’è molto altro da scoprire.

I formaggi emiliano-romagnoli, oltre il Parmigiano Reggiano

Dai tortellini ai passatelli, dalla spoja lorda alla zuppa imperiale; i ricettari regionali abbondano di ricette a base di Parmigiano. Un prodotto diventato sinonimo di ‘condimento’ per la pasta — secca o all’uovo — all’incirca da quando è stato creato. Esiste però un repertorio di formaggi ancora a latte vaccino, sviluppati nelle stesse zone emiliane, oppure a base ovina. Questi ultimi specie nella Romagna orientale, dove la pecora è un animale tradizionalmente presente in campagna, come o forse più di vacche e suini. Questa è la lista dei formaggi di entrambi i tipi più sottovalutati, rari e meno noti dell’Emilia-Romagna.

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Raviggiolo

Si produce tra la valle del Savio, del Tramazzo e le comunità montane dell’Alta Valmarecchia e del Montefeltro un formaggio con una particolarità: va consumato freschissimo. Ma definire la sua storia longeva è riduttivo. Il raviggiolo un tempo si faceva con latte misto di capra, mentre ora prevalentemente vaccino, e si presenta accomodato su rametti di felce precedentemente bolliti ed essiccati. Il latte resta crudo e quindi va consumato entro 5 giorni dalla caseificazione, mentre le forme hanno altezza variabile tra i 2 e i 4 centimetri e la pasta è bianca, con un sapore leggermente burroso. Alcune fonti riportano il Raviggiolo tra i doni del magistrato di Bibbiena (poco oltre il confine toscano) a Papa Leone X, e l’Artusi lo inserisce tra gli ingredienti dei cappelletti ‘all’uso di Romagna’ e dei tortelli: così è ancora oggi.

Formaggio di fossa

Formaggio di fossa

Il formaggio di fossa è una Dop di Sogliano al Rubicone, in provincia di Forlì-Cesena, dal 2009. Un anno fa, come abbiamo raccontato, ha aperto lì anche il MuSo, Museo del Sottosuolo, per tutelarne storia e potenzialità. Un cacio ottenuto da latte intero vaccino, ovino oppure misto, che può essere trattato crudo o pastorizzato, poi lavorato con caglio naturale entro 48 ore dalla mungitura. Le forme vanno poi salate, pre-stagionate e inserite in sacchi di cotone naturale. Infine ‘infossate’ nelle tipiche buche scavate nell’arenaria o nel tufo. Una modalità in uso sin dal Medioevo per salvare il cibo dalle molte razzie degli eserciti tra Romagna e Marche, che, una volta recuperati i formaggi, conferisce un aroma intenso e spiccato. Il formaggio di fossa si degusta in purezza, con accompagnamento di miele, confetture o savor (il mosto d’uva cotto con la frutta), e anche nella preparazione di primi e gratinati.

Casècc

Casècc

Ancora un’eccellenza del versante adriatico della Romagna, e in particolar modo del Montefeltro, nel riminese. Il Casècc è un Prodotto Agroalimentare Tradizionale con latte misto di vacca e pecora in proporzioni variabili, munto solo nel momento di lattazione degli animali. A 30 minuti dall’aggiunta del caglio si rompe la cagliata e si deposita la massa nelle fascere. Poi si sala a secco, rigirandola, si lascia maturare per dieci giorni lavando le forme periodicamente e poi si fa stagionare a lungo: da un mese a un anno. In questo periodo le forme sono adagiate su foglie di noce per i primi otto giorni, poi conservate in orci di terracotta. Il Casècc si può usare anche per arricchire il ripieno dei cappelletti, oltre che servire su tagliere, in degustazione.

Pecorino del pastore

Pecorino del Pastore

“Forse non tutti sanno che”, prima dell’onnipresenza del Parmigiano anche nelle ricette della Romagna orientale, il pecorino era la tipologia di formaggio più usata. Quello detto ‘del pastore’ si fa ancora oggi nella fascia collinare e montana di Forlì e Cesena, Ravenna, Rimini, ma anche Bologna, con latte di pecora di razza sarda e caglio naturale. Le formaggette pesano circa un chilo e mezzo e stagionano tra i 4 e gli 8 mesi, con la superficie esterna protetta in alcuni casi da olio di oliva o addirittura conserva di pomodoro. Più fragrante e dolce della media dei prodotti simili, si può usare al posto del Parmigiano in quasi tutte le ricette, oppure per condire il tipico ragù di castrato. 

Cascio pecorino lievito

Cascio pecorino lievito

Ancora un esempio di impiego del latte di pecora, in questo caso intero e coagulato con caglio di capretto oppure agnello, tipico dell’Appennino Riminese. Il cascio si produce con solo latte crudo e lavora ancora soltanto a mano: dalla rottura della cagliata allo spurgo del siero, arrivando alla premitura e ‘scottatura’ delle forme col siero riscaldato della ricotta. Dopo 30 giorni di stagionatura è pronto per il consumo. Il nome? È dovuto all’occhiatura molto accentuata, per la quale il formaggio appare quasi ‘lievitato’.

Ribiola della Bettola

Ribiola della Bettola

Andiamo all’estremo opposto della regione per scoprire ‘ill ribiol’, un formaggio di latte vaccino originario dell’areale della Val Trebbia e Val Nure, in provincia di Piacenza. Si tratta di un prodotto semigrasso a pasta semidura, con latte parzialmente scremato dalla panna d’affioramento. La cagliata viene rotta a mano e posta in teli di lino per lo spurgo del siero e il compattamento. Il tutto poi si depone in stampi e si sala a mano; la stagionatura infine è piuttosto breve. Ci sono tracce dei suoi viaggi anche fino alla penisola iberica, dove il Cardinale Albertini, piacentino di origine e Ministro del Re di Spagna, era solito riceverne forme da dare in dono.

Furmaìn

Furmaìn

La provincia di Reggio Emilia ha sviluppato la tradizione delle grandi forme di Parmigiano Reggiano, ma anche di una ‘famiglia’ di formaggi di dimensioni più piccole. Le formelle, o formaggette, erano chiamate familiarmente furmaìn, proprio in rapporto alle forme più grandi, ed erano prodotte in casa per trasformare il latte che non serviva per i vitelli o per il consumo immediato. Il furmaìn è quindi un prodotto a base di latte vaccino prevalentemente pastorizzato, ma ne esiste anche una versione a latte crudo poi stagionata. Dopo la formazione della cagliata i granuli si depositano sul fondo della caldaia per circa 20 minuti. Fa seguito una ‘stufatura’ che può durare fino a tre ore, poi la salatura, a secco o in salamoia. Il furmaìn fresco si deve consumare entro pochi giorni.

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