Se il declino della sanità pubblica è causato dalle Regioni, allora aboliamole

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Chi vive a cavallo tra due Regioni, come me, è mestamente consapevole della incomunicabilità del servizio sanitario nazionale. Molto più autorevolmente, lo ribadisce una prestigiosa rivista medica, The Lancet. L’editoriale di pochi giorni fa mette a nudo il regno sanitario italiano, devoluto a valvassori regionali e valvassini locali che hanno spremuto ogni risorsa disponibile. L’anonimo editorialista scrive che “un punto debole del sistema sanitario italiano è la frammentazione della infrastruttura dei dati sanitari: non esiste un sistema unificato e centralizzato per documentare e condividere le cartelle cliniche elettroniche (EHR), i dati ospedalieri e i registri dei medici di famiglia”.

Aggiungo che, fino a poco tempo, fa le cartelle cliniche di una Azienda Sanitaria Locale ligure erano invisibili non soltanto ai colleghi lombardi, ma anche agli stessi operatori di altre Asl della Liguria. E viceversa. Nel corso degli anni, i sistemi informativi sono stati sviluppati autonomamente, con costi stratosferici, efficacia modestissima, efficienza sui generis. Mentre Instagram dialoga con Facebook e Whatsapp e traferisce e assorbe informazioni dall’intera catena social, Savona non si parlava con Genova e viceversa. E, tuttora, Liguria e Lombardia si guardano in cagnesco, evitando di condividere i propri dati, che poi sono i nostri dati. Nella civiltà dell’intelligenza artificiale, i dati sono il brodo di coltura della vita. Tanto più quelli della nostra salute.

La conclusione dell’editoriale di The Lancet è lapalissiana. “La causa principale è l’ampia autonomia regionale, con 20 regioni che operano in modo indipendente, mettono in atto politiche e adottano tecnologie diverse, creando frammentazione normativa e inefficienze. La scarsa interoperabilità tra regioni e ospedali, oltre alla mancanza di sistemi automatici di caricamento dei dati nelle cliniche private, compromette l’efficacia del sistema nazionale di EHR, il Fascicolo sanitario elettronico, concepito per seguire la storia sanitaria dei pazienti e che, a causa di questi difetti strutturali, risulta in gran parte inefficace”.

In campo sanitario, la frammentazione regionale ha prodotto un enorme spreco di risorse. Moltiplicare gli appalti e le consulenze informatiche per venti volte ha alimentato deficit stellari senza alcun beneficio, tranne che per i beneficiati diretti. E ha sottratto le risorse destinate a medici, infermieri, strutture, dispositivi. Anzi, la potestà regionale ha trasformato la modernità dello strumento telematico in un maleficio a scapito della salute, fisica e mentale, e del portafoglio dei cittadini. E, per superare l’incomunicabilità, servirà una ulteriore valanga di quattrini.

In un paese che invecchia rapidamente, sperperare le risorse sanitarie è un delitto. Ma non è il solo spreco prodotto dalla scellerata politica di “devoluzione”, calco dell’inglese devolution, un neologismo nato a cavallo del millennio e presto diventato una parola arcaica, ormai scomparsa dalle gazzette e dai social. In quasi tutti i settori macinati dal frantoio regionale, le sovrapposizioni, lo sperpero, la umiliazione della competenza sono stati la norma. Senza contare il naturale e automatico effetto della moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei dirigenti apicali in un paese che conta un generale ogni 378 militari, quando a libro paga degli Stati Uniti c’è un generale ogni 1.440 soldati.

Sostenibilità ambientale e governo del territorio, cartografia e meteorologia, lavori pubblici e trasporti, formazione professionale e valorizzazione dei beni culturali hanno subito una frammentazione tecnologica insopportabile, una proliferazione legislativa spesso incomprensibile, una elefantiaca esplosione burocratica. Nel 2023 la spesa pubblica ha superato 1.100 miliardi di euro, circa il 55 percento del Pil. Aveva superato la soglia del 50 percento nel 1990 e nel 1993 aveva segnato il picco storico del 57 percento.

Ma c’è una differenza, rispetto a oggi. Allora, la comunità gestiva ancora le autostrade e i trasporti aerei e navali, produceva l’acciaio, le navi, i treni, le auto e perfino la passata di pomodoro e i panettoni; e possedeva asset rilevanti, un patrimonio enorme di beni mobili e immobili. In gran parte privatizzato dalle dismissioni neoliberiste, gestite soprattutto da governi di centro-sinistra o cosiddetti tecnici. Il grasso che avvolgeva lo Stato italiano è stato bruciato a favore quasi esclusivo della burocrazia, non della crescita economica e sociale. E, in caso di necessità, la burocrazia non è un asset facilmente valorizzabile né, tantomeno, monetizzabile.

Parecchi dati economici e svariate evidenze sociali indicano come la regionalizzazione del paese abbia peggiorato la vita delle persone, penalizzato l’economia, privilegiato l’assalto della finanza ai beni comuni, senza migliorare sensibilmente il livello culturale, l’istruzione, il benessere, il senso civico degli italiani. È una tra le principali cause, anche se non la sola, di un declino nazionale che appare inarrestabile. Anziché rimuginare riforme sempre più avventate, non sarebbe il caso di prendere in considerazione un ritorno al futuro?

In occasione del prossimo referendum sulla riforma costituzionale, approvata dal Parlamento nel 2024, perché non affiancare un quesito sulla opportunità o meno di mantenere l’ordinamento regionale? L’opinione della gente non è irrilevante sulle questioni istituzionali. Abolire le Regioni, ritornando allo Stato nazionale e alle deleghe provinciali, non dovrebbe essere un tabù, una idea affatto inconcepibile, ma un argomento di riflessione, una materia da esaminare con realismo, un tema di dibattito democratico. In fondo, le province custodiscono una eredità storica e culturale assai più profonda e radicata di quella regionale. Tranne alcune eccezioni, le Regioni così come sono oggi, non sono mai esistite sulle carte geografiche della storia.



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