Ci sono notizie che non hanno bisogno di alcun giornale e «come una freccia dall’arco scocca vola veloce di bocca in bocca». Lo aveva cantato per decenni e così accadde quel triste giorno di gennaio del 1999.
Quando la notizia piombò nelle case di milioni di italiani: era scomparso Fabrizio De Andrè. Malato da tempo, pochi mesi prima il suo ultimo concerto, Faber si spense una triste mattina di ormai ventiquattro anni fa. E l’emozione, come la notizia della celeberrima “Bocca Di Rosa”, volò veloce e non si è mai fermata.
Sono passati ormai ventisei anni dalla morte del cantautore genovese ma le sue canzoni restano di una stringente attualità, ancora oggi continuano ad appassionare, ad essere cantate, conosciute anche dai giovanissimi, occasioni di ritrovo e di condivisione. Faber ha segnato un’epoca ma, allo stesso tempo, supera ogni epoca. In un’intervista disse che era stato calcolato ci volessero oltre otto ore solo per cantare tutte le sue canzoni dedicate al più nobile dei sentimenti.
Ha cantato la voce di chi crede nella Pace e vuol opporsi alle guerre – tema quanto mai attuale – e dei senza voce che soffrono fino a cercare le morte nelle carceri – tema drammatico a pochi giorni dalla fine dell’ennesimo anno che ha segnato il record di suicidi – fino all’umanità più profonda di coloro che vengono emarginati, scartati, disprezzati dalla società. Faber, come lo soprannominò l’amico Paolo Villaggio, è da sempre considerato il migliore e più sensibile cantore degli ultimi, degli emarginati, degli impoveriti della società. E questa è una verità innegabile. Ma c’è una parte di verità sempre più nascosta e taciuta dai più: Fabrizio non si accontentava di raccontare che gli ultimi esistono e denunciava apertamente il perché.
L’emarginazione e l’impoverimento sociale non sono figli di un fato sconosciuto, di avversità ineluttabili. La radice prima di tutte le ingiustizie sociali è la prepotenza, l’ipocrisia, il dominio sociale. Viviamo ancora oggi, ancor di più di vent’anni fa, in una società in cui domina la ricerca del profitto ad ogni costo, dell’omologazione sociale utilizzata come strumento di dominio, di super ricchi che con violenza e prepotenza si impadroniscono di tutto. E per farlo costruiscono distrazioni di massa, sviano l’attenzione facendo credere che la minaccia sociale sia altrove, impongono modelli culturali ipocriti e moralisti per i quali i prepotenti possono tutto. Nascondendo il marcio con retoriche altisonanti e nobili richiami.
Fabrizio De André raccontò in un’intervista che la canzone Don Raffaè è nata nel 1989. «La classe dirigente politica era intortata con quella economica», disse, «ed entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali». Una classe dirigente che viveva, e continua tuttora, ad esercitare la “politica” considerando i cittadini pacchi di voti per il potere, sui favori agli amici e agli amici degli amici.
Favori per la ricerca di un lavoro o dell’agognata pensione, delle cure per un proprio caro o per avere un servizio pubblico. La prepotenza, la violenza, l’avere come unico obiettivo della vita l’arricchimento e il dominio si scaricano su chi non ce la fa, su chi non è assimilabile alla cultura dominante, sui più poveri ed emarginati. Mentre la democrazia diventa una lotta tra clan per il dominio, in mano a potentati e cerchie sempre più ristrette, un’oligarchia.
Anche qui le canzoni di De André sono illuminanti, a partire dalla Domenica delle Salme. «Una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più», trasformata in oligarchia. Nelle canzoni di Fabrizio De André vengono irrisi, svelati, messi in piazza vizi e ipocrisie della borghesia. Gli stessi di allora e di oggi, gli stessi che condannano pubblicamente una ragazza che non rispetta certi “canoni morali” e poi di notte alimentano lo sfruttamento della prostituzione.
L’anniversario della morte di Fabrizio De André ogni anno viene ricordato con eventi in tante parti d’Italia. A Vasto anche quest’anno tornerà un omaggio libero, come lo era Faber, e partecipativo. “Da bambino volevo guarire i ciliegi”, riprendendo il verso di un’altra celebre canzone, è il titolo del “libero raduno di chitarre e voci” che si terrà sabato 11 gennaio alle 18.30 sotto i portici degli ex palazzi scolastici in Corso Nuova Italia.
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