Agazio Loiero
08 gennaio 2025 21:02
di AGAZIO LOIERO
“Ero a Roma, dove per la prima volta ho trascorso le feste natalizie, quando ho appreso la notizia della morte di Giuseppe Chiaravalloti. Ho sempre avuto con lui uno splendido rapporto, da molto prima che, sia pure per un breve periodo della sua vita, scendesse in politica. Sapevo che non stava bene e negli ultimi tempi spesso lo chiamavo. Peppino, come lo chiamavamo gli amici, era un brillante conversatore, capace di reggere da solo una serata. Aveva fatto studi regolari e possedeva una buona cultura, non solo giuridica. Era stato a lungo magistrato a Catanzaro. Di fatto la Città dei tre colli era diventata sin dagli anni dell’adolescenza la sua città del cuore. Qui era stato accolto, come è sempre capitato a tanti “forestieri” come un principe. Faccio qui una breve digressione. Ho usato non a caso la parola “forestieri” che è arrivata fino a noi dai tempi di Omero e che solo negli ultimi tempi, grazie alle autostrade, agli aeroporti e al turismo di massa, è diventata priva di senso. Una fama, quella dell’accoglienza catanzarese, che il patriota Luigi Settembrini nell’Ottocento aveva codificato in forma definitiva: “Catanzaro è una città dove si arriva piangendo ma da cui si parte piangendo”.
Peppino era arrivato ragazzo per frequentare il mitico liceo Galluppi. Proveniva da uno dei paesi della costa Jonica, Satriano e apparteneva ad una famiglia modesta. Il padre era un impiegato comunale, che però aveva capito perfettamente il valore dello studio in una stagione politica, quella dell’immediato dopoguerra, nella quale si avvertivano ancora i riverberi della monarchia e del passato regime. Una società dunque divisa rigidamente in classi sociali su cui però la democrazia appena nascente aveva liberato un vento nuovo. Il ginnasio, il liceo accoglievano di anno in anno un numero sempre maggiore di studenti. Quelle classi sociali cui ho appena accennato non imponevano i gioghi del passato. Il figlio del contadino, dell’operaio, dell’impiegato non era condannato a fare il mestiere del padre. La gerarchia tra i ragazzi non era più necessariamente stabilita dal censo ma dallo scintillio dell’intelligenza e dalla capacità di apprendimento. Peppino aveva sposato questa logica. Prese la maturità con bei voti e si iscrisse all’università di Genova in giurisprudenza. Nella città ligure, oltre a studiare riuscì ad appagare, grazie alla sua proverbiale versatilità, un’inclinazione irrefrenabile alla recitazione e al teatro. Inutile dire che parlava dopo poco tempo il dialetto genovese. Mi confidò molti anni fa che
aveva familiarizzato con Paolo Villaggio e altri attori del luogo ed era stato anche tentato d’intraprendere in forma esclusiva la carriera teatrale verso cui si sentiva portato. L’aveva frenato solo l’idea che una scelta del genere, considerata nel Sud così atipica, avrebbe pesantemente deluso le aspettative dei suoi genitori. Naturalmente il fascino del teatro non l’aveva mai abbandonato neanche quando aveva brillantemente vinto il concorso in magistratura e aveva quindi intrapreso una carriera che, almeno sulla carta, richiedeva una certa aura di sobrietà.
La politica era stata – e spesso lo ribadiva – una breve parentesi della sua vita ed una scelta del caso. Di fronte all’impossibilità di un accordo in Calabria sul nome del candidato presidente della regione, Berlusconi nel 2000 tagliò corto sulle polemiche che assillavano il centrodestra e scelse un magistrato. Con la politica Peppino non ha mai stabilito un rapporto ideale, tanto che vinse le elezioni, governò per cinque anni, ma non si candidò per un secondo mandato. Spesso era costretto a scontrarsi con l’uomo totus politicus che, grazie alla sua ironia, in cuor suo non amava. D’altra parte, è stata questa la cifra costante della sua vita. Anche la consapevolezza della morte imminente l’ha affrontata con la solita ironia. L’ho cercato nei giorni di Natale per fargli gli auguri. Era ricoverato in ospedale ed aveva avuto dai medici una sentenza non benevola. Quando gli ho chiesto: “Peppino, come va? Mi ha risposto: “Bene, sono in attesa della telefonata da lassù”.
Riposa in pace, amico mio
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