Gli incendi di questo gennaio ridisegneranno Los Angeles: per la sua fabbrica dei sogni, già piegata dalla pandemia e dallo sciopero dell’anno scorso, forse non c’è più futuro
DAL NOSTRO INVIATO
HOLLYWOOD – Un tuffo nel blu. Il turchese trasparente dell’acqua, l’azzurro profondo del cielo. Da qualche parte, intorno, la scritta HOLLYWOOD sulla collina. Una piscina di Los Angeles, simbolo del sogno della California del Sud. Immortale nei quadri dell’inglese transfuga David Hockney, la danza infinita delle linee sulla superficie dell’acqua. Ma in quei grandi acrilici su tela non ci sono i pompieri con le tute annerite dalla caligine che usano l’acqua delle piscine per spegnere gli incendi, il simbolo più sconvolgente del disastro di questi giorni, che verrà chiamato «il grande incendio di Los Angeles» come ora a scuola i piccoli americani studiano quello di Chicago del 1871 che coinvolse un’area quasi venti volte più piccola.
Se davvero è facile vedere l’inizio delle cose ma è più difficile vederne la fine, appare chiaro con il passare delle ore, con ogni bella casa con vialetto e garage (e magari piscina) che va a aggiungersi alla distesa di macerie carbonizzate, che le ricadute del disastro cambieranno Los Angeles. Anche ignorando il tema molto concreto della base imponibile — quante tra tutte quelle case distrutte non torneranno mai più, perché i loro proprietari se ne andranno? — Hollywood stava già seguendo da qualche anno una traiettoria precisa, limitando drasticamente il suo storicamente enorme impatto sull’economia locale (non solo attori ma tutti i tecnici, l’indotto).
La pandemia, la scoperta di nuove fonti di guadagno (lo streaming elimina l’intermediario, cioè i gestori delle sale cinematografiche che assorbono metà degli incassi) e di nuovi luoghi dove delocalizzare le produzioni che per un secolo sono state la spina dorsale dell’economia locale.
Troppo costoso girare a Los Angeles? Lo sciopero dell’anno scorso — i motivi erano giusti, rinegoziare le regole ai tempi dello streaming e della intelligenza artificiale — ha dato alle produzioni l’unica cosa che di solito non avevano, pressate come sono dai calendari delle uscite per fornire sempre novità al pubblico assetato di «contenuti»: il tempo. Tempo di guardare altrove, con regole meno stringenti e tasse meno alte, assicurazioni meno care.
Netflix ora costruisce un megastudio non a Hollywood ma a Albuquerque, New Mexico. Nota al grande pubblico globale non per la scritta Hollywood e gli Oscar e le infinite location di Los Angeles dall’osservatorio Griffith di Gioventù Bruciata in poi, ma per essere la cittadina del professore-narcotrafficante del serial Breaking Bad.
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Il Covid ha fatto perdere abitanti alla California per la prima volta da quando è diventata uno Stato dell’Unione: 1850. L’estremo occidente, l’ultima frontiera della febbre dell’oro. Hollywood nata lì per sfruttare la luce brillantissima utile a filmare senza tante luci artificiali con le pellicole dell’epoca, e per sfuggire alle regole sui diritti d’autore di New York (ha la deregulation nel Dna). Il Covid come rompighiaccio, efficace per dimostrare ai californiani che c’è vita altrove.
La popolazione della California è in calo dagli anni ‘80 e da allora lo Stato ha visto una perdita netta di «migranti interni» ogni anno: tra aprile 2020 e luglio 2022 la popolazione è diminuita di oltre 500 mila persone, nel 2022-2023, oltre 690 mila hanno lasciato la California.
Quante case bruciate — le ceneri sono ancora calde — non saranno mai ricostruite? Il governatore Gavin Newsom innovatore sì ma ancora più ambizioso ieri ha promesso a sorpresa esenzioni ad hoc dalle stringentissime regole ambientali (rinnegando una carriera di fede ambientalista). Regolamenti che nei decenni del boom non esistevano perché la sostenibilità sosteneva sé stessa con i soldi e i posti di lavoro, Los Angeles si espandeva apparentemente senza fine e l’importante era costruire facendo espandere la città a est fino al deserto, città impossibile e proprio per questo laboratorio dell’architettura modernista di vetro e metallo cromato della «space age» dell’esplorazione spaziale, Lautner (quello della casa-astronave) e tutti gli altri nel dopoguerra, Paul Revere Williams e il ristorante-disco volante planato sull’aeroporto LAX e chiuso dopo l’11 settembre.
Oggi è il rudere di un’altra era geologica, monumento funebre di un futuro che non c’è stato. L’era delle case impossibili ora minacciate dalle fiamme come quelle sulla riva dell’oceano a Malibu, enclave per metà spazzata via e con lei il sogno dei Beach Boys di un’estate senza fine, «Wouldn’t It Be Nice?», sarebbe bello, sì, lo sarebbe stato.
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