L’asimmetria del linguaggio intorno alla guerra tra Israele, Hamas ed Hezbollah

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Guerra, pace, Onu, diplomazia. Tutti i termini che esperienza e cultura ci hanno abituato a usare per descrivere i conflitti, e cercare di spiegarli (o risolverli), sembrano inadatti per quel che sta accadendo intorno a Israele nel Medio Oriente. La parola guerra sembra inadatta a raccontare gli eventi. Che guerra è quella di un paese bene organizzato, bene armato, con un governo democratico costretto a rispondere alla sua esigente opinione pubblica, contro formazioni armate violentissime, ma – in apparenza – infinitamente inferiori (non sono un esercito) e isolate (non sono uno stato)?

Se questa è guerra, una delle due parti è molto più forte e può, sia pure con uno sforzo prolungato, ridurre all’impotenza i suoi sparsi nemici. Non è affatto certo che sarà così. La parola pace è ancora più inadeguata. Infatti, la radicale diversità fra le parti in lotta vede Israele impegnato ed esposto con il suo stato, i suoi confini, il suo territorio, i suoi cittadini, le sue istituzioni, la sua immagine.

La controparte sono Hamas ed Hezbollah, due vaste formazioni di guerriglia che – di volta in volta – impegnano ed espandono le popolazioni di una parte e dell’altra. Ma sono sempre in grado di dichiarare «persecuzione», «oppressione» o «occupazione» le battaglie perdute. E non devono rispondere ad alcuna opinione pubblica né locale, né del mondo per qualunque colpo, per quanto atroce, infetto al nemico.

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Lo stato che sostiene una guerra ha limiti di tempo, limiti di offesa, limiti di accettazione interna, limiti di tolleranza nel mondo. Se l’attaccante è una costellazione di formazioni armate, a volte clandestine, nessuno risponde a nessuno e la reazione del mondo tende a essere più di meraviglia che di critica. Ma se anche l’indignazione critica esiste, colpisce nel vuoto. Le organizzazioni armate non statali tendono a essere viste come fenomeni di resistenza e di reazione, persino se infliggono il primo colpo, persino se aprono e conducono le ostilità, persino se sono veri e propri eserciti, come Hezbollah.

Trattare fra chi? 

Come, con chi trattare la pace, se un gruppo può facilmente scambiare guida e responsabilità con un altro gruppo e un’altra organizzazione, senza mai dover impegnare nella trattativa popolazione, territorio e istituzioni statali? Pace, dunque, è una condizione elusiva di sospensione, qualcosa come un armistizio di fatto che può durare un giorno, un anno, molto di più o molto di meno. Se questo è il paesaggio, e se la indefinibilità dei termini tradizionali è un fatto vero, ancora più spiazzata appare non solo la parola, ma anche la funzione della diplomazia. 

Trattare fra chi, interporsi dove, come? Tradizionalmente in questi casi l’espressione chiave è «guerra asimmetrica». L’espressione, utile per il terrorismo vasto e anonimo che si è manifestato l’11 settembre, indica la necessità di una risposta dura e senza quartiere, che non conosce interruzioni o trattative, ma solo un dibattito, sempre aperto, sugli strumenti, i luoghi della risposta dura.

Come è noto, quel dibattito continua intorno alla risposta americana: identificare uno stato nemico per poter lanciare una guerra tradizionale. E nota la polemica che spacca e contrappone la stessa opinione pubblica americana; si tratta della trasformazione forzosa della guerra al terrorismo – fatalmente asimmetrica – in guerra fra Stati che ha rivelato un’asimmetria ancora più marcata e pericolosa, quella fra la massima potenza del mondo e una media potenza che – frantumandosi – si è rapidamente trasformata in tante guerriglie. 

I concetti di asimmetria e sproporzione

C’è simmetria nell’esplosione improvvisa del conflitto ai confini nord e sud di Israele? La percezione comune suggerisce che vi sia una clamorosa evidenza di asimmetria. Una salda potenza militare radicata in uno stato ben definito, e ben difeso, appare impegnata in scontri e azioni contro organizzazioni armate di consistenza incerta, la cui attività di offesa si presta a essere percepita come sporadica, anche quando è di grande violenza e produce grave danno.

Tale percezione, legata a una sorta di mordi e fuggi (o all’impressione che si tratti di un’offesa non costante e non persistente, data la mancanza di ambientazione statuale dell’unità che attacca) è forse la vera causa del giudizio severo e tendenzialmente negativo dell’azione militare di rigetto israeliana. Essa appare «sproporzionata», persino dal punto di vista delle grandi diplomazie del mondo, perché l’immagine dei filmati, che mostra facilmente un esercito in azione ma non può identificare facilmente la manodopera della guerriglia, persino se tale manodopera è vasta e ben armata, suggerisce sproporzione, favorisce la persuasione che vi sia una grande asimmetria. 

Per sapere che non è vero, e che intorno a Israele sono mobilitate strategie, interventi mediatici, facilitazioni logistiche, connessioni di intelligence e scorrimento di materiali bellici anche nuovi e sofisticati, occorrono approfondimenti e conoscenze sul campo. Misteriosamente in questo momento molto difficile per Israele – ma anche minaccioso e grave in un modo nuovo e senza precedenti per il mondo – approfondimento e conoscenza sul campo sono mancati.

Un articolo dal Libano di Robert Fisk (luglio 2006), giornalista inglese, che non ama Israele, contiene notizie essenziali sulle armi iraniane, la intelligence siriana, i finanziamenti ricevuti da Hezbollah, il lungo lavoro di preparazione dell’attacco-assedio a Israele che è iniziato da quasi un anno, le connessioni politiche fra Hezbollah milizia ed Hezbollah partito politico con due posti nel governo di Beirut, la descrizione di un Paese che appare innocente oppure brutalmente attaccato, mentre l’innocenza riguarda, come sempre, le popolazioni civili ma non il governo, non la fitta rete di un’organizzazione politica di guerra collegata attraverso la Siria con Hamas, e in grado di esercitare un attacco offensivo che non c’era mai stato.

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Ecco dove si forma l’ostacolo più grave alla presenza, all’intervento dell’Onu. Lo stato di disorientamento e disinformazione della maggior parte delle diplomazie, e il giudizio negativo di molti governi rendono irrealistico un credibile e autorevole intervento dell’Onu. «Sproporzionata» è la tragedia che sta svolgendosi, incompresa per la sua gravità per tutti noi, e narrata come una guerra esotica.


Estratto da La fine di Israele, di Furio Colombo, in uscita il 17 gennaio 2025 (Baldini+Castoldi, 2024)

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