Le startup in Italia: se ne parla tanto ma si investe poco. E il confronto con l’Europa è notevole

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L’Italia non è un Paese per startup. Se ne parla tanto, ma poi quando si tratta di investire pochi lo fanno. I numeri su questo parlano chiaro. Secondo l’Innovation Scoreboard 2024 la Penisola è molto al di sotto della media europea e cresce troppo lentamente: uno striminzito 3,9% nel periodo 2017-2024. Nell’ultimo anno, secondo il report Ricerca e Sviluppo 2024 di Startup Italia, gli investimenti avrebbero addirittura subito una contrazione di ben il 47,62% su base annua con una raccolta complessiva che nei primi sei mesi è stata di circa 254,5 milioni di euro.

Gli investimenti nel nostro Paese si concentrano in settori strategici come il cleantech, il biotech, il comparto IT e le soluzioni di intelligenza artificiale.

Nonostante il calo complessivo dei finanziamenti, il numero di deal è aumentato del 3,5% rispetto al 2023, con 87 operazioni chiuse nei primi sei mesi del 2024.

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Il confronto con l’Europa

L’Italia, come accennato prima, resta molto indietro rispetto a Francia e Regno Unito quanto a investimenti, mentre si colloca poco dietro la Spagna. Per quanto riguarda il pubblico, sempre secondo l’Innovation Scoreboard 2024, è tra i Paesi peggiori per quanto riguarda il supporto alla ricerca e dunque all’innovazione, con un indice aggregato di sintesi pari a 57,1 contro una media europea pari a 122,5. Il Regno Unito continua a dominare la scena europea con il 27% di tutti i finanziamenti, seguito da Germania e Francia (entrambe con il 16%).

Nel primo trimestre del 2024 le startup europee hanno raccolto complessivamente 11 miliardi di euro, un dato in crescita rispetto al Bel Paese.

L’identikit delle startup in Italia

Secondo il Report Startup di Assintel l’ecosistema startup in Italia si compone prevalentemente di imprese piccole o molto piccole, come tutto il resto del tessuto imprenditoriale.

Circa la metà di queste piccole imprese ha raggiunto la fase di scale-up e il 26,9% è in fase di lancio commerciale, mentre le restanti si trovano ancora in una fase di ideazione o prototipazione. I settori più attivi sono ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), prodotti e servizi business, farmaceutica e biotecnologie, manifattura e finanza.

A livello geografico si registra un netto primato della Lombardia, con Milano che conta circa il 20% delle startup, seguita dall’Emilia-Romagna. In generale, il Nord-Ovest della penisola è l’area più fertile per le startup innovative, seguita dal Sud e dal Centro.

In generale si parla tanto di gender gap ma in questo caso non è così: le startup hanno una percentuale di donne CEO di cinque volte superiore rispetto al complesso delle imprese italiane, che si ferma al 4%.

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Le fonti di finanziamento delle startup italiane

La fonte principale di capitali per le startup a oggi resta il Venture Capital, seguito da Business Angel e Club Deal. Ma anche il crowdfunding è congeniale perché più accessibile anche in una fase molto precoce del ciclo di vita di una startup. Meno significativi, infine, sono i finanziamenti agevolati mediati dalle garanzie pubbliche.

In Italia nel 2023 circa un terzo delle operazioni di investimento in startup è stato realizzato da business angel o attraverso crowdfunding, ma il 98% dei 1,2 miliardi di euro investiti arriva dal VC. Certo, la sproporzione dal punto di vista degli investimenti è impietosa: negli ultimi dieci anni negli Usa il VC ha investito 1,5 trilioni di dollari, in Europa 500 miliardi e in Italia 8 miliardi o poco più.

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Cosa manca all’Italia

Pesano regole in tema di innovazione piuttosto incerte e che cambiano frequentemente, la ritrosia a investire in progetti ad alto rischio, interessi consolidati e dinamiche corporative che frenano l’accesso ai finanziamenti per le startup innovative a favore di aziende consolidate. E manca soprattutto una vera e propria cultura dell’innovazione. Per gli Usa per esempio provare a creare una nuova impresa è una scelta diffusa, non un’eccezione, e fallire non è un peccato imperdonabile. Fa parte del gioco, si tenta, si sbaglia, si riparte. Se Bezos si fosse arreso al primo tentativo, Amazon non esisterebbe.

Le normative

Arriva lo Scaleup Act. Dodici anni dopo lo Startup Act, il primo decreto sulle aziende innovative emanato nel 2012 dal governo Monti, il ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit) ha pubblicato in Gazzetta ufficiale la nuova legge sulla concorrenza, contenente un rinnovo del quadro legislativo delle imprese che guardano al futuro. Il pacchetto di regole è soprannominato Scaleup Act.

Gli obiettivi sono ambiziosi: migliorare la competitività del sistema Paese, facilitare gli investimenti istituzionali nelle startup, attrarre capitali esteri, diventare il paese capo fila in Europa per investimenti in innovazione, promuovere la scalabilità per rendere le giovani imprese competitive a livello globale, riducendo la distanza tra l’Europa e le altre grandi potenze.

Ma vediamo la nuova normativa nel dettaglio che innanzitutto ridefinisce il concetto di startup. Si tratta di una micro, piccola o media impresa impegnata nello sviluppo di prodotti o servizi innovativi e tecnologici.

Secondo la nuova normativa, una startup innovativa deve:

  • essere una micro, piccola o media impresa (MPMI) con un fatturato annuale inferiore a 50 milioni di euro o un totale di bilancio non superiore a 43 milioni di euro
  • avere un oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico
  • escludere attività prevalenti di consulenza e quindi le startup che operano principalmente come agenzie o forniscono servizi di consulenza non rientrano più nella categoria
  • investire in ricerca e sviluppo destinando almeno il 15% del fatturato o dei costi operativi annuali a progetti innovativi
  • dimostrare una componente tecnologica rilevante attraverso brevetti registrati, software sviluppati o team altamente qualificati.

È prevista un’analisi periodica delle performance delle startup che si trovano da tre anni nella sezione speciale del registro delle imprese. Lo sguardo si concentrerà sul fatturato, in base al quale sarà possibile capire se il mercato ha creduto nell’impresa. In caso di riscontro positivo, la startup potrà restare nel registro per altri due anni, con possibile rinnovo di un ulteriore biennio, godendo sempre degli incentivi previsti. In via eccezionale, si prolunga fino a nove anni la “fase startup” di un’impresa. Dopodiché, sarà tempo di crescere e diventare azienda vera e propria.

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Gli investimenti nel capitale sociale di startup innovative continuano a beneficiare di una detrazione IRPEF del 40% per le persone fisiche, applicabile alla somma investita direttamente o tramite organismi di investimento collettivo.

La detrazione del 50%, introdotta dalla precedente normativa, viene aumentata al 65% a condizione che vengano finanziate le startup quando sono ancora in fase embrionale. Gli incubatori certificati che investono in startup innovative potranno beneficiare di un credito d’imposta dell’8% sull’importo investito, fino a un massimo di 500mila euro annui, a partire dal 2025, con l’obbligo di mantenere l’investimento per almeno tre anni.

Anche le istituzioni (e in particolare i fondi pensionistici) ricevono l’invito a investire in startup innovative. Come previsto dalla nuova legge, infatti, con un investimento di almeno il 5% del paniere nel 2025 e del 10% nel 2026, a tali fondi verrà applicata un’esenzione dall’imposta sui guadagni.

Nonostante queste nuove normative l’ecosistema italiano necessita ancora di un vero e proprio balzo per raggiungere una scala paragonabile a quello dei principali Paesi europei. Per il 2025 ci può essere fiducia, perché il taglio dei tassi di interesse e la discesa dell’inflazione potrebbero generare una nuova disponibilità di liquidità a buon mercato per sostenere le idee innovative. Staremo a vedere.


FOTO: SHUTTERSTOCK

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