Nemmeno le rinnovabili sono al sicuro dagli eventi climatici estremi

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Ho capito davvero cosa potrebbe diventare l’eco-ansia la sera del 20 luglio 2023. Quel giorno venne diramata l’allerta meteo in tutto il Veneto, all’imbrunire si alzarono forti raffiche di vento e nuvole cariche di energia s’addensarono in cielo. Poi, in un attimo, divampò un gran temporale e iniziarono a piovere palle di grandine; mai visti chicchi così grossi in tutta la vita, mi confessarono l’indomani i vicini di più lunga memoria. Trincerati in casa, pareva di trovarsi in guerra: il tetto schioccava, le tegole come vetro in frantumi, i pannelli fotovoltaici installati da qualche mese e sfondati in pochi minuti dalle bombe di ghiaccio. Per noi un piccolo dramma domestico, ma un nulla in confronto a quanto sarebbe successo nel corso dell’anno successivo con le alluvioni apocalittiche in Emilia-Romagna, Europa Centrale e da ultimo a Valencia, in Spagna. Il nostro impianto fotovoltaico era andato in briciole, ma almeno non avevamo perduto la casa, o addirittura la vita.


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Se vuoi approfondire le circostanze eccezionali che hanno portato all’alluvione del 2023 in Emilia-Romagna puoi leggere questo articolo di Luca Brocca. 
In questo articolo Giancarlo Sturloni ha invece raccontato cosa possiamo fare in termini di prevenzione e in caso di emergenza per difenderci dalle alluvioni.


Decarbonizzazione a rischio


Sappiamo ormai che il riscaldamento globale sta rendendo gli eventi metereologici estremi più frequenti, intensi e violenti, ma negli ultimi anni ci siamo dolorosamente resi conto di qualcosa che ancora ci sfuggiva: le nostre città non sono pronte a simili calamità, non lo sono le nostre case, e nemmeno le nuove tecnologie energetiche su cui si basano i programmi di decarbonizzazione sono al sicuro.



Molti Paesi si stanno dando un gran daffare per riqualificare il patrimonio edilizio ed efficientarlo dal punto di vista energetico con impianti fotovoltaici, sistemi di accumulo, pompe di calore e isolamento termico, eppure è chiaro che edifici e nuove fonti energetiche saranno sempre più esposti e vulnerabili ai cambiamenti climatici. Anche qualora dovessimo azzerare le emissioni globali di gas serra nei prossimi anni o decenni, la temperatura terrestre continuerà per inerzia ad aumentare e l’eccesso di calore accumulato in atmosfera a sfogarsi in fenomeni anomali e senza precedenti, rispetto ai quali semplicemente non siamo attrezzati.

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In Unione Europea i codici di costruzione e ristrutturazione si sono allineati per accelerare la decarbonizzazione tramite l’efficientamento del patrimonio edilizio, ma l’efficienza energetica fa ben poco per proteggere le proprietà dagli effetti più gravi del cambiamento climatico. La riflessione su come rendere il patrimonio edilizio climate-proof, ossia resiliente ai disastri naturali, è passata finora in secondo piano anche negli Stati Uniti, dove solo la Louisiana, il Mississippi e la California hanno adottato nei propri piani regolatori delle normative per proteggere gli edifici rispettivamente da alluvioni e incendi.


La ragione per farlo dovrebbe essere evidente: che senso ha, infatti, sforzarsi così tanto per decarbonizzare l’intera infrastruttura energetica se poi si fa così poco per proteggerla da tempeste, uragani, inondazioni e altri eventi avversi sempre più distruttivi? La nuova infrastruttura energetica che stiamo così faticosamente sostituendo alla vecchia non è equipaggiata per affrontare un clima che già sappiamo sarà diverso, anche se nessuno può prevedere quanto.


Gli impianti fotovoltaici


Torniamo ai pannelli fotovoltaici sfondati dalla grandine: come per i cappotti termici alle abitazioni, per ora danni di questo tipo sono localizzati e circoscritti, ma proviamo a immaginare cosa potrebbe accadere tra vent’anni o più, quando la capacità installata sarà auspicabilmente centinaia di volte superiore a quella attuale e le grandinate più severe, ricorrenti e imprevedibili. Stiamo installando pannelli solari ovunque, e lo stiamo facendo a un ritmo forsennato: in Italia, ad esempio, nel 2008 si contavano 34.000 impianti fotovoltaici attivi per 0,48 Gigawatt di potenza installata, mentre al termine del 2023 gli impianti erano oltre un milione e mezzo e la potenza complessiva già superiore a 30 Gigawatt.

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Per rispettare poi gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), entro il 2030 si dovranno installare nel nostro Paese oltre 55 GW di nuova potenza fotovoltaica: quasi 8 GW all’anno per sette anni. Quanti degli impianti già in funzione e di quelli programmati in questo decennio mettono in conto la grandine e altri disastri climatici? Quanti, oltre a mitigare il riscaldamento globale, saranno anche adattati a un clima diverso?


Se vuoi approfondire i temi attorno ai quali ruota il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici puoi leggere questo articolo di Giancarlo Sturloni.


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Pannelli solari più resistenti


Prima di venire commercializzati, i moduli fotovoltaici vengono sottoposti a delle prove di resistenza che simulano le tempeste naturali sottoponendoli all’impatto con sfere di ghiaccio tra i 4 e gli 8 centimetri di diametro. Il fatto è che, anche quando non sfondano la scocca in vetro che riveste ogni singolo modulo, i chicchi di grandine di più grosse dimensioni possono creare microfratture interne e “invisibili” alle celle fotovoltaiche, che nel tempo possono evolvere in problemi più gravi di cui sappiamo ancora troppo poco. Oltre a perdere di efficienza, infatti, le celle danneggiate possono creare resistenze elettriche, surriscaldarsi e addirittura innescare incendi dell’impianto fotovoltaico.


Sulla carta i pannelli solari sono in grado di generare energia con una buona resa per un trentennio, ma le stime non tengono conto di come gli eventi metereologici estremi minaccino di accorciarne sensibilmente la vita produttiva. Oggi siamo nel pieno boom dell’installazione di impianti fotovoltaici, sia residenziali che commerciali, ma la tecnologia dei pannelli in silicio attualmente in uso non è pensata per affrontare eventi metereologici estremi, né tantomeno per venire riparata e riutilizzata una volta danneggiata.


Chi ha intuito i contorni di questa “tempesta perfetta” ha cominciato a cercare delle soluzioni: per prevenire danni climatici, c’è chi sta testando dei sistemi automatici per inclinare i pannelli negli impianti utility scale ed evitare così l’impatto diretto con la grandine, e chi sta sviluppando delle tapparelle motorizzate da combinare agli impianti residenziali.


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Pale eoliche e vento estremo


Ma la vulnerabilità climatica della nuova infrastruttura energetica che stiamo costruendo non riguarda soltanto l’energia solare. Prendiamo infatti l’eolico: ci si potrebbe aspettare che più vento in circolazione rappresenti una manna per la produzione di energia, eppure oltre una certa soglia maggiori raffiche non si traducono nella produzione di maggiore energia, al contrario possono danneggiare i rotori delle turbine, che devono perciò essere disattivate ben al di sotto del carico massimo nominale.


Gli impianti eolici vengono costruiti oggi per resistere a raffiche con picchi fino a 250 chilometri orari, ma solo per pochi secondi: ne ha dato prova l’uragano Yagi, che alla fine dell’estate ha abbattuto diverse turbine eoliche sulla costa dell’isola di Hainan, in Cina. Ancora una volta si tratta di eventi per il momento rari, ma la domanda da porsi è la stessa: l’infrastruttura eolica costruita oggi di gran foga secondo gli standard di sicurezza attuali sopporterà gli eventi imprevedibili del futuro?



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L’effetto della siccità


Anche le centrali idroelettriche risentono dei cambiamenti climatici, in alcuni casi per la scarsità di acqua nei bacini di accumulo e in altri per via del suo eccesso. Nel 2023 a livello mondiale sono stati installati 20 Gigawatt di nuova capacità idroelettrica, ma l’annata siccitosa in molte regioni ha fatto crollare la produzione complessiva, per sopperire la quale si è reso necessario riattivare impianti a carbone. Si calcola addirittura che il 40% dell’aumento delle emissioni di CO2 registrato a livello mondiale nell’ultimo anno sia stato determinato dalla perdita di energia prodotta da fonte idroelettrica. E quando di acqua ce n’è troppa le cose possono andare anche peggio: vedere per credere l’alluvione del 2020 in Cina, quando la Diga delle Tre Gole raggiunse il massimo della capacità e la saturazione del bacino idroelettrico costrinse ad allagare vaste zone di territorio abitato.


Le centrali nucleari sembrerebbero essere meno esposte ai rischi climatici, ma non sempre è così, anzi: per la necessità di un costante approvvigionamento d’acqua, molti impianti sono localizzati in zone oggi considerate a elevato rischio idrico. Nell’estate del 2018 l’azienda energetica EDF ha dovuto spegnere temporaneamente diversi reattori in Francia a causa delle ondate di calore e della scarsità idrica: l’acqua di fiume prelevata per il raffreddamento dei reattori era così poca e così calda da dover sospendere la produzione di energia.



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È successo di nuovo nel 2022, poi ancora nel 2024, ed è accaduto anche altrove, ad esempio negli Stati Uniti, dove la maggior parte dei reattori sono stati costruiti più di quarant’anni fa secondo standard ormai superati per ciò che riguarda i rischi correlati ai cambiamenti climatici. Le interruzioni legate al clima sono per ora limitate, ma stanno crescendo, e la domanda dunque non cambia: come gli impianti fotovoltaici e le pompe di calore, le centrali nucleari potrebbero essere il futuro, ma come sarà esattamente quel futuro?


Se si perde la fiducia


Persino la riforestazione urbana, oggi promossa come misura di mitigazione e adattamento al riscaldamento globale, comincia a soffrire dei cambiamenti climatici già in corso. Ormai è risaputo che gli alberi piantati in città contribuiscono ad abbassare l’effetto delle isole di calore, ad assorbire gli inquinanti e creare spazi per la biodiversità, eppure per via delle temperature elevate e dello stress idrico l’aspettativa di vita media degli alberi in ambiente urbano è di soli 19-28 anni, sensibilmente inferiore rispetto a quanto sarebbe in natura. Il che significa che molti degli alberi introdotti in città muoiono prima di poter apportare i maggiori benefici alla mitigazione, e che bisognerebbe perciò adattare sin da oggi la riforestazione urbana anche ai peggiori scenari climatici del futuro.


Se i cambiamenti climatici minacciano di vanificare gli sforzi della decarbonizzazione, c’è infatti il rischio concreto che si perda fiducia nella transizione energetica e che l’ecoscetticismo prenda così il sopravvento. Perché mai investire in impianti, centrali o e sistemi di efficientamento se ogni anno potrebbero venire danneggiati? Perché dare fondo a tutti i risparmi per isolare casa o comprare un’auto elettrica, se la minaccia di un’alluvione è lì che incombe?


Nel 2023, nei soli Stati Uniti si sono verificati ben 28 eventi metereologici estremi per danni ad abitazioni e infrastrutture che ammontano a 92 miliardi di dollari, tanto che alcune società del mercato immobiliare hanno introdotto nei propri listini anche una “valutazione di rischio climatico”, un po’ come avviene con la classe energetica per quel che riguarda l’efficienza. Gli edifici nelle aree più esposte potrebbero perdere così tanto valore che nessuno sarà più disposto a investire per decarbonizzarli.


Assicurarsi contro gli eventi estremi


Ora come ora ci si aspetta che una soluzione possa venire dalle assicurazioni – ad oggi in Italia solo il 6% delle abitazioni è assicurato contro i disastri naturali e il 5% delle aziende – ma le polizze contro gli eventi climatici crescono proporzionalmente ai danni e potrebbero presto diventare inavvicinabili. Pensiamo infatti a un bene che ogni anno corre un rischio sempre più alto di venire danneggiato: quale compagnia sarebbe disposta ad assicurarlo a costi accessibili?


Sempre negli Stati Uniti diverse compagnie assicurative si sono ritirate dalla California e dalla Florida perché lì i disastri legati al clima stanno rapidamente peggiorando e diventando troppo onerosi. Così, per via del rischio climatico e dell’aumento dei costi di assicurazione, molte aziende hanno già rilocalizzato le proprie infrastrutture in regioni ritenute meno esposte o stanno considerando di farlo nei prossimi anni. Altrove sono ormai anni che le piccole agenzie di assicurazione rischiano l’insolvenza per via delle catastrofi climatiche e sono perciò costrette ad assicurarsi esse stesse presso le maggiori compagnie internazionali. Ma quanto a lungo potrà funzionare?


Mitigare l’adattamento, adattare la mitigazione


Ci siamo abituati a pensare alla mitigazione (cioè la riduzione delle emissioni di gas serra, in primis con il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili) e all’adattamento agli effetti del riscaldamento del pianeta come a due programmi distinti e paralleli nel contrasto alla crisi climatica, come se uno potesse procedere indipendentemente dall’altro. La verità è che la mitigazione è la prima tra le forme di adattamento, perché più mitighiamo gli effetti del riscaldamento globale più riusciremo ad adattarci ai nuovi regimi climatici.


Ma è vero anche il contrario, ossia che l’adattamento è la prima tra le forme di mitigazione, perché la nuova infrastruttura energetica che stiamo costruendo potrà mitigare davvero solo se saprà resistere in un clima sempre più avverso. Mitigare l’adattamento, adattare la mitigazione: tutt’altro che distinti, occorre urgentemente ripensarli come programmi inscindibili e complementari della transizione energetica.

Una vista aerea del paese di Conselice durante l’alluvione in Emilia-Romagna del maggio 2023 (immagine: cesare Barillà via Wikimedia Commons)

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L’alluvione in Emilia-Romagna del maggio 2023 (immagine: Cesare Barillà via Wikimedia Commons)

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Immagine satellitare dell’estesa perturbazione che ha colpito la penisola iberica nell’ottobre 2024 causando l’alluvione di Valencia (immagine: MODIS Land Rapid Response Team, NASA GSFC via Wikimedia Commons)

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La centrale nucleare di Tricastin, in Francia, che nell’agosto del 2022 ha dovuto ridurre la produzione di elettricità a causa dell’eccessiva temperatura dell’acqua usata per raffreddare gli impianti (immagine: Marianne Casamance via Wikipedia)

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I danni causati dal passaggio del tifone Yagi ad Hanoi, in Vietnam (immagine: Octagon via Wikimedia Commons)



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