Rifiuti organici, oltre il 70% degli impianti italiani di gestione lavora in perdita economica

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Tra i rifiuti urbani raccolti in modo differenziato nel nostro Paese, l’organico (Forsu) rappresenta la frazione più raccolta in base ai più recenti dati Ispra (2023), arrivando al 38,3% del totale; eppure un quinto del raccolto è da buttare di nuovo, perché la qualità non è adeguata a ricavarne compost, ovvero il fertilizzante naturale da riportare nei terreni agricoli.

È quanto emerge da un nuovo studio commissionato da Biorepack – il Consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in bioplastica compostabile – al team di ricercatori dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata guidato da Francesco Lombardi.

Lo studio si è incentrato sul livello di performance dei 112 principali impianti italiani, nei quali viene trattato il 96% di tutti i rifiuti organici pari a 4,8 milioni di tonnellate. Ciascuno di loro, nel 2022 ha trattato almeno 5.000 tonnellate di Forsu, almeno 10.000 tonnellate complessive di Forsu e verde e ha presentato dati completi ai fini delle elaborazioni. I diversi impianti sono stati valutati in base a tre “scenari di efficienza”, a seconda della capacità di eliminare dal processo di trattamento i materiali non compostabili (in particolare plastiche tradizionali, vetro, alluminio e altri metalli) senza scartare al tempo stesso una quantità eccessiva di rifiuto umido e bioplastiche compostabili.

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«In termini economici – si legge nella ricerca – una produzione di scarti maggiore del 15% rispetto al rifiuto trattato risulterebbe economicamente non sostenibile, considerando che le attuali tariffe medie per lo smaltimento degli scarti sono, nella migliore delle ipotesi, circa il doppio di quelle del ritiro del rifiuto organico. Un impianto che abbia una produzione di scarti superiore al 15% genera verosimilmente un conto economico in perdita rispetto al processo di riciclo organico. Inoltre, valori superiori al suddetto limite sicuramente non contribuiscono in maniera positiva al raggiungimento degli obiettivi europei sull’effettivo riciclo».

A livello nazionale, a fronte di un valore di materiali non compostabili presenti nel rifiuto organico in ingresso agli impianti del 7,1% il tasso medio di scarto prodotto dagli impianti di trattamento organico è pari al 21,9%, stima la ricerca, un dato già presentato da Biorepack e Cic (Consorzio italiano compostatori) lo scorso novembre a Ecomondo. Ancora lontani quindi dalla soglia del 15%, indicato come obiettivo da raggiungere.

L’unica Regione il cui sistema impiantistico, considerato nel suo complesso, ha saputo contenere gli scarti sotto al 10% del rifiuto trattato è il Friuli Venezia Giulia. Sotto la soglia del 15% si collocano i sistemi di raccolta di Veneto e Lombardia. In una percentuale di scarti generati non superiore al 20% (scenario primary) rientrano i sistemi di raccolta e trattamento anche di Puglia, Liguria e Piemonte. Nelle restanti 12 Regioni gli scarti superano il 20%.

Se si considerano le prestazioni dei singoli impianti sparsi sul territorio italiano, attualmente sui 112 considerati dallo studio, solo 22 mantengono gli scarti al di sotto del 10%, in altri 9 il tasso di scarto è compreso tra il 10 e 15% – dunque complessivamente il 27,68% degli impianti analizzati rientrerebbe nel margine di sostenibilità economica –, in ulteriori 14 è tra il 15 e il 20%, mentre i restanti 67 sono sopra al 20% di scarti.

«Solo 7 Regioni, ovvero Friuli Venezia Giulia, seguito da Veneto, Lombardia, Puglia, Piemonte, Emilia Romagna e Molise – sottolinea Lombardi – hanno fatto rilevare al loro interno impianti in grado di mantenere gli scarti al di sotto del 10%». Al contrario, in 5 Regioni (Trentino Alto Adige, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania) non si riscontrano impianti che soddisfino condizioni di efficienza tali da poter riuscire a contenere gli scarti nemmeno al di sotto del 20%. Ciò significa che in media per ogni 100 chili di rifiuto organico in ingresso in quegli impianti, meno di 80 vengono effettivamente riciclati.

In questo contesto, secondo Biorepack il problema non sta nell’effettiva compostabilità delle bioplastiche, ma nella scarsa efficienza degli impianti disponibili. Come spiega il dg del Consorzio, Carmine Pagnozzi, Biorepack ha deciso di commissionare questo studio «con un obiettivo principale: verificare le modalità di gestione delle bioplastiche compostabili all’interno del processo di trattamento dei rifiuti organici.  Decisamente eccessivi e pretestuosi sono state infatti negli ultimi anni le accuse su una presunta incompatibilità tra le bioplastiche compostabili e i siti di trattamento organico», come emerso negli anni scorsi da più fonti, spaziando da Greenpeace ad alcuni gestori toscani.  

«Le evidenze dello studio – afferma la ricerca – hanno confermato che esse non presentano problemi gestionali negli impianti con elevato indice di riciclo, ossia con alta efficienza degradativa». Eventuali problemi sembrano nascere solo in quegli impianti identificati come scarsamente efficienti: «Le bioplastiche vengono scartate insieme ad altre matrici biodegradabili (come gusci di frutta, di uova, ossa o valve di molluschi), oltre che alle plastiche tradizionali e altri materiali non conformi, ragion per cui sono spesso ritrovate non degradate negli scarti».

Che fare? Da un lato lo studio sottolinea sottolinea l’importanza di ridurre la presenza dei materiali non compostabili che “sporcano” l’umido. Fondamentali sono in questo caso le iniziative di comunicazione, sensibilizzazione ed educazione della cittadinanza. Altrettanto utile è investire su sistemi chiari di etichettatura dei rifiuti compostabili e applicare tariffe di ritiro e trattamento variabili in funzione della minore o maggiore presenza di materiali non compostabili nella Forsu, come già fa il consorzio Biorepack con i Comuni convenzionati.

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Lo studio evidenzia poi l’importanza di ottimizzare, all’interno degli impianti, i processi di separazione dei rifiuti non compostabili; solo così si può limitare al minimo il rischio di “trascinare” fra gli scarti le matrici organiche. Altrettanto cruciale è rispettare le tempistiche di trattamento organico in funzione dell’obiettivo finale di arrivare a produrre compost di qualità. In quegli impianti che non raggiungono livelli adeguati di efficienza spesso si utilizzerebbero tempi troppo brevi: le indicazioni italiane e comunitarie prodotte dal ministero dell’Ambiente e contenute nei Bref della Commissione europea (i documenti di riferimento delle migliori tecnologie disponibili) indicano che, per gli impianti solo aerobici, la durata minima non può essere inferiore a 9-10 settimane. Per quelli integrati (anaerobici-aerobici) la durata della sola fase di compostaggio è invece stabilita in 30-45 giorni.

Occorre infine che i gestori di rifiuti nei singoli Comuni ammettano nella raccolta della Forsu tutte le matrici biodegradabili. «Compresi noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci e potature nonché i manufatti compostabili, che la ricerca conferma essere assolutamente trattabili negli impianti di compostaggio al pari di qualsiasi rifiuto organico – conclude Lombardi – Va invece evitato di selezionare solo quelle matrici ritenute più facili da trattare per produrre energia nella fase anaerobica del processo».

Una sfida in più per un comparto fondamentale per portare avanti l’economia circolare italiana, sui cui però ad oggi gravano più fronti aperti: oltre alla scarsa qualità della raccolta differenziata e all’inefficienza degli impianti, anche il ritmo di crescita quantitativo sta fortemente rallentando, mentre si profilano rischi di sovra-capacità impiantistica in più aree dello Stivale.



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