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Dipende dalla presenza di materiali non compostabili e dalla “qualità” impiantistica del Paese
Secondo uno studio commissionato da Biorepack, Consorzio Nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in bioplastica compostabile, all’Università di Roma Tor Vergata, gli impianti di trattamento dei rifiuti organici producono mediamente uno scarto del 21,9%. A fronte di un valore di materiali non compostabili in ingresso del 7,1%. Lo scarto è, evidentemente, troppo alto e antieconomico. E non è colpa delle bioplastiche, ma di una raccolta ancora non di qualità e di inadeguate procedure di separazione e trattamento.
“Un impianto che abbia una produzione di scarti superiore al 15% – sottolinea la ricerca – genera verosimilmente un conto economico in perdita rispetto al processo di riciclo organico. Inoltre, valori superiori al suddetto limite sicuramente non contribuiscono in maniera positiva al raggiungimento degli obiettivi europei sull’effettivo riciclo”
Un’analisi su 112 impianti di trattamento
Lo studio, realizzato dal Dipartimento di Ingegneria Civile e Informatica dell’università di Roma Tor Vergata, ha analizzato la performance di 112 impianti dove vengono trattate 4,8 milioni di tonnellate di rifiuti organici. Si tratta di impianti che nel 2022 hanno trattato almeno 5.000 tonnellate di FORSU (frazione organica dei rifiuti solidi urbani), 10.000 tonnellate considerando anche il verde.
Complessivamente sono solo 31 gli impianti che riescono a contenere gli scarti il 15%. Ce ne sono 67 con percentuali superiori al 20%. A livello territoriale, solo Friuli Venezia Giulia, Veneto e Lombardia riescono a contenere lo scarto sotto la soglia che indica l’efficienza economica. Bene anche Puglia, Liguria e Piemonte, con percentuali tra il 15 e il 20%. Le restanti 12 Regioni superano tutte il 20%.
Come ottenere una raccolta più pulita?
Cosa fare per ridurre l’invio in discarica di preziosi rifiuti organici e quindi rendere il sistema del riciclo più sostenibile anche economicamente? Sicuramente bisogna agire sui consumatori, con etichette chiare e campagne di sensibilizzazione per far capire l’importanza di non “sporcare” l’umido con rifiuti non compostabili. Oppure usare una tariffa incentivante: che decresce in funzione della minore presenza di materiali non compostabili nella FORSU. Una soluzione già adottata da Biorepak con una serie di Comuni convenzionati.
Lo studio, inoltre, sottolinea come sia importante ottimizzare il processo di selezione negli impianti, che va dalle operazioni di separazione dei rifiuti al rispetto dei tempi giusti per creare compost di qualità. Negli impianti con bassi livelli di efficienza spesso si accorciano i tempi del biotrattamento. Bisogna “attenersi alle indicazioni fornite dalla normativa tecnica sulla durata minima della fase aerobica del processo, nella quale il rifiuto organico diventa compost – scrivono i ricercatori – Ciò è essenziale per chiudere il processo di trattamento e ottenere un prodotto riciclato (l’ammendante compostato) di qualità adeguata per l’uso agricolo”. Le indicazioni italiane e comunitarie in materia indicano non meno di 9-10 settimane per gli impianti solo aerobici. Per quelli integrati (anaerobici-aerobici) la durata della sola fase di compostaggio è invece stabilita in 30-45 giorni.
Per massimizzare il riciclo inoltre, i gestori di rifiuti nei singoli Comuni non devono limitarsi a selezionare solo le cosiddette “matrici biodegradabili” ritenute più facili da trattare per produrre energia nella fase anaerobica del processo. Al contrario, devono ammettere nella FORSU tutte le matrici biodegradabili. Quindi anche noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci e potature nonché “i manufatti compostabili, che la ricerca conferma essere assolutamente trattabili negli impianti di compostaggio al pari di qualsiasi rifiuto organico”.
Le bioplastiche: una “indubbia risorsa”
Lo studio smentisce quindi alcuni timori sulla compatibilità delle bioplastiche nel trattamento dei rifiuti organici. “Esse – si legge nella ricerca – non presentano problemi gestionali negli impianti con elevato indice di riciclo, ossia con alta efficienza degradativa. In tali contesti, le bioplastiche rappresentano una indubbia risorsa in quanto contribuiscono ad aumentare la quantità di materiale avviabile a riciclo, diminuendo allo stesso tempo gli scarti di processo”.
Quando gli impianti sono scarsamente efficienti, “le bioplastiche vengono scartate insieme ad altre matrici biodegradabili (come gusci di frutta, di uova, ossa o valve di molluschi), oltre che alle plastiche tradizionali e altri materiali non conformi, ragion per cui sono spesso ritrovate non degradate negli scarti”. La loro eliminazione dal processo di trattamento sarebbe quindi una “mera conseguenza delle inefficienze di tali impianti”.
Foto di Leopictures da Pixabay
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