«Ho sempre voluto rendere omaggio a questi medici afghani che hanno curato più di 8 milioni e mezzo di pazienti e salvato migliaia di vite durante la guerra, continuando a farlo oggi. La loro forza è ineguagliabile, la cura per il loro popolo incrollabile. Il lavoro che Emergency ha svolto e svolge tuttora non va dimenticato. L’Afghanistan non va dimenticato». Fotografa e giornalista investigativa, britannica con origini afghano-pachistane, Lynzy Billing introduce così Long Night, il documentario presentato martedì 14 gennaio 2025 al Palazzo delle Esposizioni a Roma e dedicato alle attività in Afghanistan dell’associazione fondata da Gino Strada e Teresa Sarti iniziate nel 1999. Vincitrice di premi e riconoscimenti, tra cui tre Emmy per The Night Doctrine, il documentario tratto da The Night Raids, la sua inchiesta sulle vittime civili degli “squadroni della morte” addestrati dalla Cia nel Paese, Billing parla al manifesto del suo lavoro. Che muove sempre da una sete di giustizia: «Non mi occupo di breaking news. Scrivo pezzi investigativi di lunga durata. Spesso raccolgo prove e testimonianze dopo la guerra. É cruciale perché è come dire ai civili: ‘Voglio sapere cosa vi è successo, sono qui per ascoltare, non vi abbiamo dimenticati’».
In Long Night lo sguardo dei protagonisti è attuale e insieme retrospettivo. Rimanda a un periodo drammatico della storia del Paese, contrassegnato da violenza militare, attentati suicidi, morti e feriti. Che immagine ne emerge, e a cosa rimanda il titolo?
In Long Night il personale e i pazienti di Emergency ripercorrono ben 25 anni di lavoro in Afghanistan, condividendo ricordi personali e il tributo psicologico che ne deriva, durante i principali attentati e nei momenti più cruciali. Il titolo è un gioco di parole con «la guerra più lunga» (The Longest War), ma rimanda anche alle molte, lunghe notti in cui, a causa di esplosioni e attentati, nei pronto soccorso degli ospedali c’è un afflusso massiccio di pazienti in un breve lasso di tempo. Oggi la guerra ventennale degli Stati uniti è finita, ma gli ospedali di Emergency sono più affollati che mai. Le strade sono aperte, i pazienti arrivano a ogni ora. Prevalgono i traumi civili, anziché i feriti da combattimento. Il tempo trascorso negli ospedali nel luglio 2024 mi ha permesso di conoscere anche i problemi attuali di molti afghani, in particolare delle donne: la violenza domestica, i conflitti familiari, le lotte contro il dominio talebano e la stagnazione economica.
Nel film i chirurghi di guerra degli ospedali di Kabul e Lashkar Gah condividono anche traumi intimi. Quanto è diffuso il trauma nel Paese?
In Afghanistan si sono depositati decenni di traumi e perdite collettive, ma il trauma è anche individuale. Nel film emerge il tributo psicologico pagato dai medici e dai pazienti. La guerra è finita, il trauma rimane. Appena ci si ferma a pensare e ci si apre ai ricordi, torna a galla tutto. Ma i medici continuano a lavorare ogni giorno. La loro forza mi ha colpito, ho un enorme rispetto. Ovunque nel mondo, sono sempre i medici a rimanere accanto ai civili. Non se ne vanno. Non smettono di lavorare. Poi c’è il trauma dei pazienti. Prendiamo i bambini: in Afghanistan, su 10 vittime di ordigni esplosivi, 8 sono bambini. Il 60% delle esplosioni è avvenuto mentre giocavano. Nel documentario un bambino ricorda di aver visto del sangue a terra e di aver cercato di correre a casa, ma di essere caduto: aveva perso una gamba. Non hanno responsabilità, ma pagano un prezzo inimmaginabilmente alto.
In The Nights Raids esamina il costo umano della guerra della Cia in Afghanistan, «un’eredità di traumi di cui non si è riusciti a rendere conto»: centinaia di chilometri nella provincia di Nangarhar, 30 siti di raid notturni visitati, più di 350 interviste con funzionari del governo afghano e statunitense. Come presenterebbe questo lavoro ai nostri lettori?
The Night Raids è stato un viaggio personale, alla ricerca di specifiche responsabilità. È la storia del modo in cui gli Usa e i loro alleati hanno finanziato, addestrato ed equipaggiato forze in tutto il mondo che uccidono civili senza conseguenze. Nel corso di quasi quattro anni ho cercato di rintracciare i civili uccisi da una delle quattro «unità zero» conosciute, squadroni di forze speciali afghane finanziate, addestrate e armate dalla Cia per dare la caccia a obiettivi ritenuti una minaccia per gli Stati Uniti. Operazioni antiterrorismo che avevano come obiettivo i talebani e poi lo Stato islamico. I soldati afghani erano spesso affiancati dai soldati delle operazioni speciali Usa che lavoravano con la Cia. Il numero effettivo dei civili uccisi in questi raid probabilmente non sarà mai noto. Io ho viaggiato nell’Afghanistan orientale incontrando sopravvissuti, testimoni e familiari ancora traumatizzati, raccogliendo prove e testimonianze e scoprendo che le incursioni erano spesso basate su informazioni del tutto errate. A essere uccisi, civili senza colpe. Ogni raid ha lasciato in eredità cicatrici fisiche e mentali. Ancora oggi, gli Usa non hanno fatto i conti con la propria eredità mortale in Afghanistan. Le «unità zero» non esistono più, ma la stessa storia si ripete ovunque nel mondo.
È finita nella provincia di Nangarhar conducendo ricerche sulla storia della sua famiglia: quando aveva due anni, sua madre, una rifugiata pachistana in Afghanistan, e sua sorella minore sono state uccise in un raid notturno. Poi lei è stata adottata da una famiglia britannica. In che modo la sua origine plurale influenza il suo sguardo giornalistico? L’attenzione al giornalismo d’inchiesta è legata anche alla difficoltà di conoscere la storia dei suoi genitori biologici?
Sì, ritengo che il mio background condizioni molto il mio lavoro giornalistico. Mi chiedo sempre perché racconto storie. E mi chiedo: a cosa è servita la morte di mia madre? Mi concentro sulle persone scomparse, su quelle morti su cui non si è indagato. Credo che la storia di mia madre alimenti la mia costante ricerca di giustizia. Sento la responsabilità di raccontare queste storie, di cercare la verità, di scoprire le ingiustizie. Per me, lei è una sorta di promemoria costante. Personalmente, solo scrivendo The Night Raids ho trovato una sorta di chiusura, è stato in un certo senso terapeutico. Ma tantissimi afghani non hanno mai avuto risposte sul perché i loro cari siano stati uccisi senza ragione. Non hanno mai avuto una conclusione per il loro tormento. Nessuno è stato chiamato a rispondere della morte di centinaia di civili. Non ancora.
Lei è appena tornata dalla Siria. «Assad non c’è più, ma i dettagli delle sue atrocità sono ovunque», ha scritto in un post recente. In nove giorni ha fotografato oltre 6.500 documenti in sedi dell’intelligence, prigioni, basi militari, ministeri. Come userà questi materiali? E quanto è importante per la Siria affrontare il nodo della giustizia per i crimini passati?
La Siria si trova a un punto di svolta, in cui la raccolta e la conservazione delle prove è di estrema importanza. I siriani conoscono da tempo i luoghi di tortura e di terrore in cui le persone scomparivano. Sapevano degli abusi e della corruzione del regime di Assad. L’enorme compito che ci attende non è semplicemente scoprire questi crimini, ma ottenere prove concrete per perseguire i responsabili. Come giornalista investigativa, il mio lavoro consiste nell’esaminare le prove, registrarle e ascoltare le storie delle persone. Così da mettere insieme tutti i pezzi per scoprire le verità.
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