Le violenze di piazza sono solo un assist alla repressione violenta

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Quando i tempi si fanno violenti i violenti scendono in campo. Purtroppo, in Italia scendono in campo anche i fiancheggiatori della violenza e gli strumentalizzatori che vogliono volgere l’uso della violenza a loro miope vantaggio politico di breve termine

Proviamo a dirlo con chiarezza: la violenza contro persone e cose è sempre inaccettabile, ingiustificabile, da condannare. Senza se e senza ma. Non aggiungo è “persino controproducente”, poiché non so quali sono gli obiettivi perseguiti dai violenti nelle piazze e nelle strade d’Italia che andrebbero perduti proprio a causa dell’uso della violenza.

Certamente, fra gli obiettivi non figura praticamente in quasi nessun caso quello di suscitare le simpatie e di guadagnare il sostegno né, si dice così, degli astanti né di chi leggerà i resoconti oppure vedrà i fatti sui telefonini e in tv. Improbabile è anche che le manifestazioni all’insegna della violenza abbiano come obiettivo secondario quello di reclutare altri manifestanti.

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Contro i “potenti”

Alcuni sociologi, anche italiani, vedono in manifestazioni di questo tipo, che sfidano palesemente la polizia e i manganelli, una modalità di (ri)affermazione della identità di gruppo, di cementazione di rapporti amicali, di appartenenza, di condivisione politica.

Contrariamente alla troppo diffusa giustificazione giornalistica della condizione di disagio giovanile e sociale, i violenti sono tali non fondamentalmente perché “stanno male”, ma perché vedono nella loro violenza il modo, forse l’unico, di contrapporsi a chi ha il potere di governo e a chi dai ranghi dell’opposizione non sa e non vuole ricorrere a maniere dure e forti, ai loro occhi diventando connivente con il governo, con i potenti di casa nostra e altrui, ad esempio, gli ebrei.

In tutte le società, in qualsiasi momento si producono fenomeni e accadimenti criticabili, rivelatori di ingiustizie, di trattamenti non soltanto deplorevoli, ma anche illegali a scapito e ai danni di alcuni settori sociali variamente vulnerabili, oggi identificati soprattutto con i palestinesi di Gaza. Nient’affatto in tutte le società le risposte anche ai fatti più gravi si traducono (dovrei, forse, scrivere “degenerano”) in azioni violente.

Laddove lo fanno è per due ragioni di fondo. La prima è la convinzione che risposte ordinate, legali, composte sono già state tentate e sono fallite, nel senso che non hanno avuto un seguito di riparazione degli eventuali torti e di costruzione di una situazione migliore.

La seconda è che esiste un potenziale di violenti che non si sentono rappresentati, anzi si sentono “traditi” da chi dovrebbe rappresentarli e che traggono una qualche soddisfazione personale nella esibizione della loro forza e del loro “coraggio” che orgogliosamente esprimono sotto forma di aggressione e di scontro con le forze dell’ordine.

Tempi violenti

Naturalmente, può succedere che quelle forze dell’ordine si trovino impreparate a “gestire” lo scontro di piazza; si sentano pericolosamente minacciate; reagiscano a insulti, sputi, lancio di oggetti e qualcosa di più. Di conseguenza, eccedendo nella reazione, offrono il destro (sic) a critiche, reprimende, persino a un più ampio, in termini di numeri e di intensità, coinvolgimento dei violenti.

Una buona gestione della piazza implica non alzare il tiro degli scontri, meno che mai frontali, isolare i gruppi più violenti, procedere alla de-escalation. Tutto questo vale, caso per caso, manifestazione per manifestazione, corteo per corteo, ma non può pretendere di risolvere in maniera duratura il problema costituito da chi non vuole fare politica, consapevolmente e deliberatamente preferendo il ricorso alla violenza come risorsa principale, quasi esclusiva.

Quando i tempi si fanno violenti i violenti scendono in campo. Purtroppo, in Italia scendono in campo anche i fiancheggiatori della violenza e gli strumentalizzatori che vogliono volgere l’uso della violenza a loro miope vantaggio politico di breve termine. Allora, dovrebbero scendere in campo anche coloro che si oppongono alla violenza dei violenti e degli apparati e delle leggi di stato. Non per equidistanza, ma perché è eticamente giusto.

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