Manifattura, l’Italia è ancora seconda in Europa? I settori in crisi e le potenze che crescono

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di
Rita Querzè e Dario Di Vico

La crisi industriale in Italia ha diversi epicentri: a Nord riguarda l’automotive, in Toscana il lusso e la pelletteria, nelle Marche l’elettrodomestico. Le nuove potenze a crescere in Europa sono Spagna e Polonia

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L’Italia è ancora la seconda potenza manifatturiera d’Europa? Le graduatorie si faranno alla fine di questa tornata di crisi. La Germania è in caduta verticale, come la Francia è alle prese con una profonda instabilità politica, e spuntano nuove «potenze» industriali come Spagna e Polonia. Anche l’Italia sta lasciando sul terreno pezzi della sua capacità produttiva. E qualcuno evoca uno scenario terribile: desertificazione. È una crisi con diversi epicentri. Il triangolo industriale del Nord per quanto riguarda l’automotive. La Toscana per il lusso e la pelletteria e le Marche per l’elettrodomestico. In pochi anni l’industria del bianco ha chiuso fabbriche a Nocera Umbra, Fabriano, Torino, Brembate, Refrontolo, Trento, Carinate, Teverola, None e Napoli. È come se l’eredità industriale delle grandi famiglie Borghi, Zanussi e Merloni fosse andata in fumo, sul terreno resta una manciata di impianti in mano a turchi e svedesi.

Oltre le mascherine

La crisi ha i suoi epicentri ma i 22 mesi di calo della produzione industriale parlano di una caduta più generalizzata. L’alimentare, il packaging, la difesa, il farmaceutico sono gli unici a essere al sicuro. Qualche numero: l’industria dell’auto è caduta del 34%, il tessile-abbigliamento prevede un calo del giro d’affari del 6,1% a fine anno, meno 8,1% il settore degli accessori moda, l’elettrodomestico dopo due anni in discesa (-16,4% nel 2023 e -18% nel 2022) prevede di chiudere il 2024 con un ulteriore calo del 15%. Nei primi 11 mesi dell’anno il settore siderurgico ha visto un taglio alla produzione del 4,7%. E la crisi dell’ex Ilva è ancora lontana da una soluzione. Persino i robot vanto del made in Italy hanno visto dileguarsi nel 2024 un terzo del mercato interno. «Decisioni come quella di Beko nell’elettrodomestico di chiudere due stabilimenti e licenziare duemila persone sono veri e propri piani di distruzione industriale. Sono attacchi diretti al tessuto produttivo del Paese a cui dobbiamo opporci con ogni forza», dice Massimiliano Nobis della Fim Cisl.




















































La crisi del 2008

Nella caduta della produzione questa crisi ricorda quella del 2008, ma non è la stessa cosa. Nei primi anni Dieci ci fu una moria di piccole e medie imprese e il simbolo furono il default dei distretti del Nord Est dei coltelli e delle sedie. Alcune lavorazioni a basso valore aggiunto vennero trasferite ai cinesi, capaci di fare prezzi irraggiungibili per l’Italia. Stavolta i cinesi (e gli asiatici in generale) ci sono ancora ma non si accontentano più di fare mascherine. Riversano sui mercati d’Europa prodotti a media e alta tecnologia. Certo, non può essere solo la Cina spiegazione della débâcle industriale italiana. Sempre per rimanere alle quattro ruote ci sono le incertezze della politica comunitaria, la frustrazione del consumatore che non sa cosa comprare e si astiene, i giovani che hanno imparato a fare a meno dell’auto.

Penalità demografica

Valgono poi considerazioni più generali: l’Europa è interessata da una crisi demografica senza precedenti e il suo mercato è solo di sostituzione. Nell’auto ma non solo. Da 50 milioni di pezzi del 2015 l’elettrodomestico europeo è sceso a 40. Per abbigliamento e accessori di lusso conta la caduta delle vendite in Asia e in Russia proprio mentre i cinesi di Shein arrivano in maniera massiccia a casa nostra. Tutto questo fa sì che ballino migliaia di posti lavoro: oltre ai quasi 2.000 licenziamenti di Beko (ex Whirlpool), 35 mila a rischio quest’anno tra i componentisti dell’auto, 10 mila in bilico nell’abbigliamento solo in Toscana dove, dopo avere garantito cassa straordinaria alle aziende della filiera, si parla di ammortizzatori anche negli stabilimenti delle grandi firme.

La deglobalizzazione

Gli economisti spiegano tutto con la deglobalizzazione e la tendenza a riorganizzare le catene in tre macro regioni: Europa, Cina e Usa. Ma in questa spartizione l’Europa si trova con un mercato piccolo, incapace di far valere la propria tradizione industriale del ‘900. Pesano le incongruenze di un mercato unico europeo dell’energia e del lavoro che non c’è, per cui può succedere che a pochi chilometri da un’Italia che langue industrialmente ci sia una Spagna in grande spolvero. E succede anche che la concorrenza si allarghi ai Paesi del Mediterraneo come Marocco, Egitto e Turchia che si candidano a diventare le nuove cittadelle industriali del secolo. Non a caso Stellantis produce la Topolino in Marocco, Beko chiude da noi ma apre in Egitto e Shein coinvolge i nostri designer ma per produrre pensa a una fabbrica in Turchia.

I salari

Il guaio è che i governi sono deboli e appaiono spaesati e le grandi aziende — vedi Volkswagen e Stellantis — sembrano senza bussola. Non ci sono adulti nella stanza. Tutto ciò nonostante il costo del lavoro sia caduto: dal ’90 al 2019, secondo l’Ocse, i salari reali (parametrati all’inflazione) sono diminuiti del 2,9%. E dal 2019 al primo trimestre 2024 si è aggiunto un ulteriore calo del 6,9%. Questo regime di bassi salari penalizza i consumi. L’impasse a questo punto è evidente: chi deve rinnovare i contratti sa che con difficoltà riuscirà a spuntare aumenti da aziende in crisi. Ed ecco che anche i metalmeccanici si appellano al governo. «Gli aumenti concessi dai contratti nazionali vanno detassati», ha detto di recente il segretario generale delle Fiom Michele De Palma. In questa situazione la lenta dinamica del Pil italiano è alimentata dai servizi. Quel poco che cresce lo dobbiamo al turismo e finiamo per litigare sugli affitti brevi di Airbnb.

Energia e investimenti privati

Se non è il costo del lavoro, che cosa ci sta zavorrando? Prima di tutto il prezzo dell’energia, che è il più alto in Europa. Nei primi 10 mesi dell’anno il megawattora è costato in media 104 euro in Italia contro i 91 della Serbia, i 71 della Germania, i 54 della Spagna e i 49 della Francia. Poi non va trascurato un ritardo negli investimenti privati. Nemmeno i 6 miliardi di Transizione 5.0 previsti dal Pnrr sono riusciti a mettere in moto il meccanismo. Quindi nella crisi industriale si finisce per rispecchiare anche la sciatteria dell’utilizzo dei fondi del Pnrr che avrebbero dovuto dinamizzare il sistema. Il risultato terribile è che la produttività del lavoro ha registrato nel ‘23 un calo del 2,5%.

Politica industriale

Ovviamente non tutta l’industria italiana sta chiudendo i battenti, rimaniamo primi in alcune nicchie di mercato. Nessuno ci toccherà yacht, design o meccanica di precisione, forse, ma è il grosso del sistema che sta prendendo una via bassa della competitività dove gli smottamenti rischiano di essere all’ordine del giorno. Così tutti evocano l’intervento di una «politica industriale», anche quelli che l’avevano combattuta fieramente. Ma manca un decalogo delle cose da fare. In compenso abbiamo la giornata del Made in Italy.

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15 gennaio 2025 ( modifica il 15 gennaio 2025 | 16:20)

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