Cronache artiche. L’isola di Vardø tra streghe, mercanti dell’Est e tensioni geopolitiche

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Un fazzoletto di terra in bilico tra due mondi

Tra i turisti, credo che non siano molti quelli a cui è capitato di mettere piede sull’isola di Vardø. La latitudine è pressappoco quella di Capo Nord: giusto un po’più a Sud e molto più a Est. La differenza è che a Capo Nord, complici anche nuove tendenze come la coolcation, il turismo infuria mentre qui non c’è nessuno.

Le coste ventose dell’isola | © Martina Fragale

Varanger, la parte più a Est della Norvegia – di lato, la Russia e di fronte, solo il mare di Barents e il Polo Nord – è una penisola totalmente al di fuori dei radar del turismo internazionale e Vardø, l’isola più a Est è, se possibile, ancora meno battuta. Un paradosso bello e buono, se si considerano diversi fatti, non collegati tra loro, che negli ultimi quattro secoli hanno portato alla ribalta quest’isoletta collocata all’estrema periferia del continente europeo.

È qui che ha avuto luogo uno dei più sanguinosi processi alle streghe, talmente efferato da far guadagnare a Vardø il triste epiteto di “Salem europea”. È qui che, giusto un secolo dopo, è stato fatto uno dei più brillanti e atipici esperimenti di libero commercio: una felice anomalia da cui è nato un vero e proprio melting pot russo-norvegese. Ed è sempre qui, a Vardø, che in epoca di Guerra Fredda è stato collocato un enigmatico avamposto che ha scatenato più volte forti tensioni. Un fatto che oggi, con l’Artico sempre più al centro di delicati equilibri geopolitici, è più che mai all’ordine del giorno.

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Autobus deserto, strade deserte. E una pioggia di uccelli, in stile Hitchcock

Sul pullman che percorre la costa Sud della Penisola di Varanger, oltre a me ci sono solo un paio di studenti, un signore anziano con uno zaino più grande di lui e l’autista. La strada si snoda silenziosa: da una parte, le acque calmissime – quasi lacustri – del fiordo, dall’altra qualche paese. Gli ultimi segni di vita prima dell’altipiano su cui sorgono le grandi solitudini, scabre e ventose, del Varangerhalvøia National Park, l’ampio e inospitale deserto artico che occupa tutto il centro della penisola di Varanger.

Guardo il paesaggio sfilare dal finestrino, assorta in una bolla di sonnolenza ipnotica, quando di colpo l’autobus viene avvolto da una densa nuvola di schiamazzi. Un tonfo, una frenata brusca e due spruzzi di sangue sul finestrino anteriore.

Vardø, nei dintorni del Pomor Museum | © Martina Fragale

Fisso l’autista col cuore in gola: lui, però, non fa una grinza e per tutta risposta mi indica qualcosa a destra, con un gran sorriso, scandendo: «Ekkerøy!» Controllo la mappa e in effetti è vero: proprio qui accanto c’è una penisola che è considerata un vero e proprio santuario di uccelli. Una sorta di tempio del birdwatching.

Normale, che ogni tanto si alzi una nuvola di gabbiani agguerriti – stile “Uccelli” di Hitchcock – pronta a tagliare la strada agli autisti. E normale che, purtroppo, spesso e volentieri tra i volatili ci scappi il morto.

Il viaggio continua senza ulteriori incidenti e il paesaggio si fa sempre più desolato. Poi l’autobus si inabissa in un breve tunnel sottomarino e riemerge poco dopo sull’isola di Vardø. Sono l’ultima rimasta, oltre all’autista. Quando scendo, il cielo è color ghiaccio. Nel vecchio porticciolo si sente solo, onnipresente, il berciare fitto fitto dei gabbiani. MAKE THE NORTH GREAT AGAIN, recita una scritta – che pare ironica – sulla facciata di una casa che sembra sfitta da qualche decennio. La verità è che sembra di essere sullo scenario di un film distopico.

Per strada, a parte me, non c’è anima viva.

Qui si parla russo. E prima si parlava russonorsk

Il Pomor Museum dovrebbe essere già aperto ma la porta, su cui campeggia un’enigmatica scritta in alfabeto cirillico, è chiusa.

Sto per andarmene sconsolata quando arriva in bici un uomo dalla barba lunghissima che sembra uscito da un romanzo di Tolstoj. Non parla una parola di inglese ma, borbottando qualcosa in russo mi fa capire che sì, posso entrare. È il guardiano del museo e, con ogni evidenza, è anche un discendente degli antichi pomor: “gente di mare” (in russo), commercianti e avventurieri che tra Sei e Settecento iniziarono a muoversi periodicamente dalla regione del Mar Bianco verso le coste norvegesi dando il via a quella che, nel giro di qualche decennio, sarebbe diventata un’interessantissima anomalia storica.

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All’epoca, Vardø era un’isola di poveri pescatori all’estrema periferia del Regno di Norvegia e Danimarca. L’unica attività consentita per approvvigionarsi di tutto ciò che non cresceva sull’isola era il commercio del pesce che, sulla base di antichi privilegi, poteva essere effettuato solo con la città di Bergen. Ma questo non bastava. Vardø, probabilmente, sarebbe andata incontro a un destino fatto di miseria e migrazioni se, dalla non lontana regione di Arcangelo, in Russia, non fossero arrivati i pomor i quali avevano fiutato subito l’affare.

In Russia, infatti, all’epoca il calendario ortodosso prevedeva molti giorni di “digiuno” in cui era vietato mangiare carne: il pesce era l’alternativa alimentare tradizionalmente accettata ma nella regione in cui operavano i pomor, la quantità di pescato fresco era assolutamente insufficiente a soddisfare la domanda. Ecco allora che il commercio con Vardø e con altri piccoli centri della Lapponia norvegese aprì le porte a una forma di baratto che, soprattutto per i poveri pescatori dell’isola, si rivelò salvifica: i pomor, da parte loro, importavano pesce fresco e, in cambio, approvvigionavano l’isoletta di grano, legname e di tutto ciò che non arrivava né dal – troppo lontano – governo centrale, né dai mercati di Bergen.

La tratta, ovvio, era apertamente illegale ma per qualche decennio il re Cristiano VII si limitò a chiudere un occhio. Poi, nel 1789 (complice, forse, lo spauracchio della Rivoluzione francese) il sovrano decise di legalizzare una situazione che, oltre a essere un dato di fatto, rappresentava anche un efficace palliativo sociale. Vardø, insieme a Hammerfest, ebbe il permesso di commerciare con chiunque volesse e non più solo con Bergen.

È così che un’isoletta periferica, apparentemente priva di importanza, si trasformò in un avanguardistico esperimento di libero scambio.

Intorno al commercio con i pomor nacque un piccolo mondo multicolore e internazionale. Da Arcangelo, i mercanti andavano e venivano e in autunno, stranissimi ed esotici per la popolazione locale, perfino dei monaci, del monastero di Pechenga sbarcavano a Vardø per vendere i loro porridge di camemoro e scorte di carne di renna secca. Certo, in tutto questo vai e vieni mancava – cosa fondamentale – una lingua di scambio. Nacque così il “moja po tvoja” o “russonorsk”, un misto di russo e norvegese che, almeno fino a Ottocento inoltrato, fu la lingua franca per eccellenza dell’isola di Vardø.

Cimitero dell’isola | © Martina Fragale
Tremate, le streghe son tornate!

Essere all’estrema periferia del mondo a volte ha i suoi vantaggi e permette di sperimentare in sordina cose nuove. Non è vero che lontano dai riflettori della grande storia tutto rimane immobile. A volte fioriscono opportunità al limite dell’avanguardia. E a volte, ahimè, succedono cose terribili: come nel 1621, quando – sulla scia di un processo sanguinoso – vennero mandate al rogo 91 persone, principalmente donne.

Quattro anni prima, la notte di Natale, una tempesta improvvisa aveva colato a picco quaranta barche. Cosa che, in tempi oscuri – gli stessi che condussero al famigerato “rogo dei tamburi” – non poteva che concludersi con accuse di stregoneria e con condanne di massa. Come a North Berwick, in Scozia, qualche anno prima e come nella ben più famosa Salem, oltreoceano, qualche anno dopo. Non a caso, il massacro valse a Vardø il triste epiteto di “Salem europea”. Con una differenza, dovuta alla posizione periferica dell’isola: di Salem si parla molto, di Vardø pochissimo, salvo la presenza sulla costa dell’isola dello Steilneset Memorial Site, un cupo, potente memoriale ideato dall’artista Louise Bourgeois e dall’architetto Peter Zumthor. Un percorso dal buio alla luce, che da un corridoio stretto e scurissimo (in cui si aprono, come ferite, 91 piccoli oblò) approda all’installazione The Damned, The Possessed and The Beloved: una sedia di metallo che brucia, a ciclo continuo, davanti alla plumbea indifferenza del Mare di Barents.

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L’enigmatica sfera di Globus: l’Artico, scacchiere geopolitico

Il passato, in certi casi, pesa come un macigno. Il presente, però, a volte non è da meno. Uno dei motivi per cui ho deciso di perlustrare Vardø riguarda infatti il presente e i sempre più inquietanti “chiari di luna” che stanno trasformando progressivamente l’Artico in un pericoloso scacchiere geopolitico. Vardø, poi, come se non bastasse si trova proprio al confine tra Occidente e Oriente: una sessantina di chilometri in linea d’aria dalla Penisola di Kola, in Russia. La posizione nevralgica spiega la clamorosa anomalia paesaggistica che scandisce lo skyline di un’isola apparentemente anonima e dimessa ma dominata da due grandi, futuristiche, sfere bianche.

Si tratta di Globus, II e III, una stazione radar gestita dall’intelligence norvegese ma nata in tempi di Guerra Fredda dalla stretta collaborazione con gli Stati Uniti.

C’è chi dice che si tratti di un avamposto americano sotto mentite spoglie. C’è chi crede che i turisti americani che, a ondate, arrivano sull’isola in realtà non siano turisti e non siano qui per fare birdwatching. Ciò che è certo è che, se lo scopo ufficiale della “stazione di monitoraggio spaziale” è raccogliere dati, quando vent’anni fa una tempesta strappò l’involucro protettivo del radar, si vide con ogni evidenza che l’antenna era puntata verso le basi militari della Penisola di Kola. «Non sono un esperto, ma pensavo che lo spazio fosse su nel cielo.» commentò, laconico, un giornalista locale. In risposta, qualche anno fa, alcuni bombardieri russi si sono avvicinati a Vardø simulando un attacco e tornando indietro giusto poco prima di violare lo spazio aereo norvegese. Come a dire: attenzione, abbiamo capito l’antifona.

Periferica e – proprio per questo – libera e avanguardistica in passato, oggi Vardø rischia di trovarsi nell’occhio del ciclone. La nuova stagione coloniale che, nell’era del riscaldamento globale investirà l’Artico (così ricco di risorse strategiche per la transizione energetica) è solo iniziata. E le mire di Donald Trump sulla Groenlandia sono, purtroppo, solo la punta dell’iceberg.

Cedant tenebrae soli

Prima di lasciare l’isola, entro a riscaldarmi nell’unico luogo della città che sembra aperto: la Rådhus, un grande e moderno centro comunale. Ed ecco scoperto l’arcano! È qui, infatti, che ritrovo a sorpresa praticamente tutti gli abitanti dell’isola che ho cercato percorrendo le strade deserte.

A quanto pare, è appena terminata una gara di nuoto per bambini e nella Rådhus è tutto uno schiamazzo di genitori che banchettano e figli che scorrazzano avanti e indietro, felici e bagnati. Chiedo se è rimasto un po’di caffè ma qui nessuno parla inglese. Una signora mi fissa per qualche secondo, poi mi allunga con fare sbrigativo un piatto di patate. Poco male, scaldano anche quelle.

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Stemma della città e bambini che giocano davanti al municipio | © Martina Fragale

Quando esco, proprio accanto alla fermata dell’autobus un gruppetto di bambini gioca su una scacchiera a misura d’uomo. Sullo sfondo, a colori vivaci, spicca lo stemma di Vardø: “Cedant tenebrae soli”. Che il buio ceda il passo alla luce: una speranza, o una preghiera, che calza a pennello con un’isoletta che nei mesi invernali si trova ogni volta a tu per tu con il grande buio della notte polare. Certo, oggi, alle porte di una fase geopolitica in cui la posta in gioco, per l’Artico, potrebbe essere molto alta, il senso della frase suona un po’diverso.

Che il buio ceda il passo alla luce: lasciando Vardø, è questo il mio augurio per il Grande Nord.



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